Gianluca Della Monica - romanzo

Il protagonista è un giovane gallerista e pittore romano. Per lui la vita non è mai facile e già da bambino passa attraverso alcune esperienze che non dovrebbero essere riservate nemmeno agli adulti. Ogni volta in cui la sfortuna lo sceglie, sente che lo stomaco gli si attanaglia e che si contrae come un pugno, in modo struggente e insidioso. A certe infelicità non si può ovviare, dichiara, ma questo non gli impedisce di dedicarsi alla sua passione per l’arte, che diventa il suo unico rifugio e attraverso la quale riesce persino a guardarsi nell’anima. Col tempo imparerà anche ad innamorarsi, rendendosi conto che in realtà il destino non esiste e che è solo una giustificazione inventata da chi si rassegna troppo facilmente.  

 ISBN 978-88-488-0579-7 - EDIZIONI LAMPI DI STAMPA

 

 

Il romanzo, anche se a tratti è drammatico, in realtà è pieno di ottimismo e non mancano gli episodi divertenti. È cioè un libro ricco di emozioni narrate come fossero colori: alcuni sono grigi e malinconici, altri hanno tonalità vivaci, altri ancora sono tinte forti. Nel loro complesso formano un’amalgama ben assortita e che in realtà non è presente soltanto sulla tavolozza del protagonista, ma nella vita di tutti noi.  

 

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IL NUOVO ROMANZO DI GIANLUCA DELLA MONICA

 

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LEGGI ALCUNI TRATTI DEL ROMANZO

 

Capitolo 1

 

“Tutte le felicità si assomigliano, tutte le infelicità sono diverse.” Non ricordo dove lo sentii dire, ma per me è vero. Ci sono dei livelli di infelicità che lasciano segni permanenti, che nidificano dentro la nostra anima come un virus allo stato latente, che non si manifesta quindi con segni o sintomi evidenti, ma che può condizionare la coscienza. In altri termini, a certe infelicità non si può ovviare. E io questo lo so bene. La mia vita, infatti, non è mai stata semplice e già da bambino ero passato attraverso alcune esperienze che non dovrebbero essere riservate nemmeno agli adulti.
   Certe ombre del mio passato, ogni tanto, mi tormentano ancora. A volte scompaiono, ma solo temporaneamente, per periodi imprecisi, e prima o poi riemergono.
    L’ombra più ricorrente è quella di mio padre, che venne ucciso quando avevo meno di due anni.
    Faceva il poliziotto, più in particolare era un agente di scorta.
    Una mattina di un Ottobre maledetto, proprio durante un suo turno di servizio, ci fu un tentato rapimento di un magistrato e venne colpito da una raffica di colpi d'arma da fuoco. Da quel giorno non solo non avevo più un padre, ma non potevo neanche più rifugiarmi nel suo cuore, dal momento che gli era stato spappolato. Una parte di esso venne addirittura rinvenuta su una saracinesca di un negozio.
    Tutto ciò che mi resta di lui è una medaglia d’oro al valor civile. Quando ero piccolo, ero solito tenerla sotto al cuscino e con l’immaginazione le facevo assumere sembianze umane. Sognavo così il contatto con mio padre, che mi teneva nel suo letto, tra le sue braccia. Solo allora riuscivo a sentirmi amato e protetto. Non era vera felicità, ma mi sentivo appagato. Ogni tanto infilavo una mano sotto al cuscino e, al contatto col metallo, mi rendevo conto della fredda realtà.
    A volte, quando mi sentivo particolarmente solo, accostavo la medaglia all’orecchio e restavo immobile ad ascoltare. Immaginavo di sentire la voce del mio papà. Mi sembrava addirittura di sentir battere il suo cuore. Forse è stata proprio la mia fervida immaginazione che mi ha aiutato ad affrontare le difficoltà.
   «Sei un bambino forte», mi dicevano tutti.
   «Mio padre non è morto, è in missione», puntualizzavo sempre, anche se sapevo che non sarebbe mai più tornato.
   Una notte mi svegliai di soprassalto. Avrò avuto otto anni. Ero al buio, a letto. Il mio battito cardiaco era impressionante, sembravano quasi due battiti sovrapposti. La medaglia, come ogni notte, era sotto al cuscino. La presi e l’andai a nascondere in un vaso d’ortensie sul balcone della cucina. Non so perché lo feci. Il giorno seguente, dopo la scuola, tornai a casa con mia madre e trovammo tutto a soqquadro. C’era ben poco da rubare, ma quel poco ci fu sottratto: un braccialetto di mia madre, una modesta collezione di francobolli e una tovaglia ricamata. I ladri devono però aver rovistato ovunque, perché non c’era più niente al suo posto. Avevano messo le mani dappertutto, ma non nel vaso di ortensie. Il tesoro era salvo. Provai ovviamente rabbia e sdegno per quella selvaggia intrusione, ma allo stesso tempo fui orgoglioso di me stesso. Mi dicevano che ero forte e da allora mi convinsi di esserlo.

  Una settimana prima del mio decimo Natale, mia madre venne nella mia stanza.
    «Sei ancora sveglio?»
    «Sì.»
    Si sedette sul letto, sorridendo, con aria triste.
    «Devo dirti una cosa molto importante, amore mio. Ormai sei grande ed è giusto che tu sappia tutto.» Mi accorsi subito che i suoi occhi stavano trattenendo le lacrime.
    «Che è successo?»
    «Domani la mamma deve andare in ospedale.»
    «Stai male?»
    «Ho dei problemi che si possono risolvere solo con un intervento chirurgico.»
    Uscii dalle coperte e mi sedetti a fianco a lei. L’abbracciai e dissi: «Mammina, andrà tutto bene?»
    Lei non rispose, continuava ad abbracciarmi mentre piangeva le lacrime che poco prima aveva trattenuto. Io non piansi, ma soffrivo terribilmente in silenzio.
   Restammo chiusi in quell’abbraccio per diversi minuti e solo allora mi accorsi di quanto il suo corpo si fosse fatto esile.
   «Per un po’ starai dalla nonna», aggiunse.
   «Posso venire anch’io in ospedale?»
   «È meglio di no.»
   Non insistetti.
   «Devi promettere che sarai forte come sempre, qualsiasi cosa succeda.»
   «Lo prometto, mamma.»
   «Ti ho comprato un regalino per Natale. Ce l’ha la nonna. Poi te lo darà.»
   «Grazie. Anch’io vorrei farti un regalo. Che ti piacerebbe?»
  «Il regalo più bello della mia vita sei proprio tu da quando sei nato. Sei il regalo più bello del mondo.»
  Mi baciò, dolcemente, poi mi fece sdraiare. Mi rimboccò le coperte e aggiunse: «Ti voglio bene.»  Anch’io avrei voluto dirle che gliene volevo, ma un nodo alla gola me lo impediva. Non potevo piangere, avevo promesso che sarei stato forte e volevo dimostrarglielo da subito. Annuii soltanto. Quando uscì dalla stanza, però, piansi a dirotto, ma in silenzio. Non volevo, non potevo assolutamente farmi sentire.
  «Non lasciarmi, mamma. Non abbandonarmi pure tu. Anch’io ti voglio bene, anche se non sono riuscito a dirtelo. Non potrei vivere senza di te», bisbigliavo al buio. Riuscii a calmarmi solo dopo aver preso la medaglia di papà. La stringevo forte e me la premevo sul cuore e, alla fine, mi addormentai.


 

 

 

 

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"Il pugno nello stomaco" di Gianluca Della Monica - Edizioni Lampi di Stampa

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