Racconti di Marcello De Santis


Come ti vorrei

 

    

Come ti vorrei…come ti vorrei, vorrei, vorrei…

La voce di eros ramazzotti scorre dolce sul suo corpo di ragazza, fino a sconvolgere il fondo della sua anima, del suo cuore in tumulto.
Sembra che stia cantando solo per lei, nel sole che si compiace di accarezza-re la sua pelle dorata. E’ distesa a pancia in giù, sulla sabbia rovente, gli occhi su una rivista aperta, che non vede neppure. 
Tutto il suo corpo è scuro, abbronzato, colore del miele. La voce e la musica la portano verso i ricordi.

Lui glie l’aveva accennata in lievi sussurri, quella sera, mentre la cingeva forte con le braccia; leggeri baci prima sul viso, poi sulla bocca di granato. 
E ancora : “come ti vorrei…”.

Adesso la sua mente non è più; nella testa solo sabbia,, sole, cielo, mare… 
nel cuore, niente.
…come ti vorrei…come ti vorrei…vorrei…

Era durato il tempo di una rosa, quell’abbraccio. 
Ora al ricordo la scuote un tremore inconsueto.
S’era ripetuto poche volte, quell’abbraccio. 
Due, tre, forse quattro. 
Eppoi, lui s’era messo appresso a luana.

Veniva dal sud-africa; biondissima, parlava quasi bene la nostra lingua. 
Era bella… e più libera di lei. 
Alle strette di lui, si lasciava andare (gliel’aveva confessato non richiesto, quell’ultima volta…), alle sue carezze luana rispondeva con sospiri di piacere, ai suoi toccamenti sui capezzoli d’ambra – così le aveva detto – emetteva gridolini d’estasi.
A lui piaceva tutto questo; tutto questo che con lei non era. 
Con luana, si sentiva un altro.

L’estate era venuta subito, e il dolore dell’abbandono si confuse con il sole e il mare, e il cielo. Ma era più forte del sole, più grande del mare, più vasto del cielo.

Lacrime, quand’è sola, inutile cancellarle col dorso della mano, si univano al sale dell’acqua sul suo viso, e filtravano pesanti nel suo cuore.

…fermati un istante…non fuggire…
questo amore mi divora, sai…
come ti vorrei…
come ti vorrei…

E’ sulla sabbia di fuoco, con il fuoco dentro, solo l’anima è di ghiaccio. 
Si preme le dita sulle palpebre chiuse a scacciare il ricordo di un amore, sofferto solo da lei.

… come ti vorrei… come ti vorrei…

Si solleva sui gomiti, la testa bassa alla rivista, che non vede; è in piedi a scuotere i capelli rossi, li tira indietro e li imprigiona in un elastico di stoffa bianca.
Con le gambe nere di sole e di sale, corre verso l’acqua che se ne sta quieta alla risacca. Fa qualche passo sul bagnasciuga, bella negli occhi, il petto prorom-pente di desiderio sotto la tela leggera. 
E’ sola come mai. 

Due bagnanti molto al largo, due ragazze che giocano sulla sabbia col tambu-rello. Ella vola leggera, per un tratto, nell’acqua bassa, alzando ed affondando in-nanzi a sé le gambe di gazzella. 
Rallenta, ora che l’acqua è alla vita, e si tuffa a testa in giù per riemergere più in là. 
Poi scompare, 
rispunta, 
e nuota verso il largo.

… come ti vorrei.. come ti vorrei…

Sulla sabbia la canzone va ad attenuarsi, lei se ne va lontana, per stare sola, per stare più sola, più sola…
Per piangere, senza doversi passare il dorso della mano sulle gote…

 

 

CAPOLINEA, SIGNORE...


    



Io non so chi sono… salga, signore, è l’ultima corsa… salgo, e lascio fuori la notte senza stelle… lampioni sul corso, gialli di nebbia… io non so chi sono… che città è questa? dove mi porta quest’autobus ? perché sono salito… mi siedo. Ecco, chiudo gli occhi e mi concentro… sono solo, come lo ero fino a poco fa sul marciapiede… ma chi sono, me lo domando ripetutamente come un automa che non riesce a controllare i propri pensieri: chi sono… chi sono chi sono chi sono, all’infinito.…
…e dove vado…, e… penso… qual è il mio nome? …
Dunque: stamattina stavo in quella camera al primo… no, al secondo piano, quell’appartamento dalle pareti verdechiaro, immenso… mi dava una sensazione di piccolezza, come se fossi una insetto in un deserto …
… no, no… non era un appartamento; ora ricordo, era una camera d’albergo… mi torna davanti agli occhi l’insegna luminosa lassù in alto, in verticale, che per un qualche contatto elettrico, mandava dei rumori strani, come quando due fili ballano all’aria o al vento e battendo al muro - toccandosi gli estremi scoperti lanciano brevi scariche e scintille: ecco, sì, sciak… sciak… sciak…; è questo rumore che ha ri-chiamato il mio sguardo lassù, altrimenti non ricorderei l’insegna; spenta al primo sole, quando sono sceso; la plastica della “O” della scritta hotel, era spaccata e si vedeva dentro il serpente del tubo del neon…
Sì, adesso ne sono certo, ero in un albergo…
Ci sono stato per tutto il giorno, steso sul letto, intorpidita la mente, tra la ve-glia e il sonno. Poi non so come e perché, qualcosa mi ha svegliato e mi ha spinto a scendere.
Uscendo dall’ascensore - ero solo dentro, il ragazzo in divisa mi ha salutato silenziosamente con un breve inchino, ho tirato dritto avanti a me, diretto verso l’e-sterno.
L’autobus se ne va silenzioso, un po’ traballante per qualche piccola buca sull’asfalto, ma silenzioso… non fa fermate… chiudo gli occhi…

Mi dico: pensa… ricordo che sull’ampia porta a vetri m’ha salutato il portiere, portandosi la mano, lo sguardo stanco, al copricapo da generale, aveva una pesan-te corda dorata intrecciata sulla tesa della visiera; s’è inchinato con una venera-zione che non ricordo in altre persone… sono dunque una persona importante?
Però non mi ha chiamato un taxi.. né mi ha fatto portare la (mia?) macchina… dunque no, non sono importante, non sono arrivato con una macchina…
Sono sceso allora sull’ampio marciapiede, e fatto una decina di passi verso destra, lo sguardo perduto nel nulla, dirigendomi come in trance laddove avevo scorto l’insegna di orari e percorsi dei mezzi di trasporto che passano per di qua. C’erano ad attendere quattro persone, due donne, di cui una giovanissima col pancione grosso sotto una corta veste di mussola che gli saliva troppo sul davanti lasciando scoperta gran parte delle gambe (parlava con l’altra, che forse era sua madre; la foggia dei capelli era la stessa, e dal naso deciso sui larghi visi si evince-va una strettissima parentela), un anziano che in attesa s’era tolto il cappello e lo stava pulendo da granelli invisibili di polvere colla manica della giacca, e un altra persona cui non ho badato, tanto era insignificante nel suo amorfo atteggiamento.


Ecco, vediamo… sì, quasi subito è apparso da laggiù (dove deve esserci una piazza, si notava un numeroso via via di gente frettolosa in quest’ora notturna, alla fine della strada, piazza illuminata a giorno.
E’ un autobus urbano… giallo… alto sul davanti dentro un rettangolo di pla-stica nero si rincorrono luminose rosse lettere maiuscole dell’alfabeto: viale argenti-na piazza dei re via cavour circolare rossa 346 via palermo… Ce l’ho ancora negli occhi e nella mente quel serpente di sangue viale argentina piazza dei re via…

Stride una frenata, una macchina poco più avanti ha evitato fortunatamente per lui, un motociclista che si era messo di traverso all’improvviso; quando gli oc-chi raggiungono il rumore, la scena era già stata girata… un casco s’è slacciato dal collo del centauro e continua a girare su se stesso in mezzo alla strada, il proprietà-rio, un ragazzo dai capelli lunghi alle spalle, cerca di rialzarsi da terra mentre accor-rono passanti a recare aiuto.
Non s’è fatto niente, per fortuna; anche il conducente della vettura è sceso, la portiera aperta, a rendersi conto. Sto guardando, ma non vedo. Dopo, il mancato scontro me lo sono ricostruito tutto intero come se l’avessi vissuto in prima perso-na.

Poi… ma come mi ha chiamato il portiere? Signor… signor… veniva verso di me per richiamarmi a tornare nella hall.
La desiderano al telefono, venga…
… ma come mi ha chiamato? il nome… il nome, non ricordo… ma perché… Che incubo è questo?
L’ho seguito con passo lesto, ho portato la cornetta all’orecchio, dall’altra parte qualcuno stava terminando di parlare, una voce di donna, … e allora t’aspetto domani mattina, ti prego, non mancare come sempre… ciao.
Ma, scusa, dimmi… pronto… pronto… pronto…
Ha riattaccato; chiusa la comunicazione.
Forse mi ha detto altre cose, anzi, è senz’altro così. Ma tutto ciò che ho ascol-tato prima delle sole parole che ricordo: e allora t’aspetto domani mattina, ti prego, non mancare come sempre… ciao, non lo ricordo più.
Poi sono uscito di nuovo, pensieroso, tanto che mi è giunto vagamente il sa-luto del portiere che ha fatto anche il mio nome: buon giorno, signor… (solo sull’autobus ci ho ripensato, e…); il nome, cerca di ricordare il nome… il nome… no, non ce la faccio… che non l’abbia fatto, il mio nome? mi pare di sì… ma forse…

Ecco l’autobus che arriva; l’autista sta accostando; si ferma tra uno sbuffare delle portiere che si aprono; non è quello di prima, chiaramente; è un altro. Salgono insieme a me due studentesse che si confidano cose in allegria, mi precedono e vanno subito verso il fondo, una dietro l’altra lungo, lo stretto corridoio centrale, do-ve hanno adocchiato i soli due porti vicini liberi.
Mi cerco nelle tasche; non ho documenti, trovo solo un biglietto, eccolo tra le mie dita… lo giro lo rigiro, ma dove l’ho comprato? cerco ancora, rinfilando prima una mano poi l’altra, nelle tasche, dei pantaloni, della giacca; niente, non un por-tafogli, non un porta documenti; solo un fazzoletto celestino tutto ciancicato. Quindi neppure soldi… ho trovato solo il biglietto… me lo guardo ancora, per leggere la città, la data, l’orario, che so, qualcosa che mi faccia ricordare, capire … niente, solo un biglietto spiegazzato e sbiadito… non si legge nemmeno le cifre dell’an-nullamento… ma l’ho fatto poi l’annullamento?… ma sì, a quella scatola gialla sul marciapiede si prega obliterare il biglietto prima di salire sul mezzo… il biglietto…
Intanto la notte sì è fatta più scura, qua le luci della città si sono diradate, oltre il centro i lampioni sono più radi, e quando il mezzo ci passa sotto, pare che quelli at-tutiscano anche il loro chiarore arancione.
E’ già da qualche fermata che nuovi passeggeri non salgono più; gli ultimi sono scesi in via rattazzi, lo so perché la fermata sta proprio sotto il nome della via inciso in nero sulla pietra sul muro di un palazzo.


Signore, siamo al capolinea… il bus ha sbuffato per l’ultima volta, ha spalancato le portiere, ha spento le luci.
Capolinea, signore, a me che m’ero quasi addormentato.
Fuori ci sono tante pensiline allineate, in una piazza molto grande, poche luci sul marciapiede laggiù, davanti a un bar.
I negozi sono chiusi.
Una fontanella vicina sta chiocciando sulla grata dello scolo; l’autista s’allon-tana e lo sento salutare alcuni colleghi che – finito il loro turno – stanno scambiandosi le ultime cose della giornata che sta finendo.
A domani, grida la mano alzata a salutare, forse pregustando una tardiva ce-na e il consueto riposo notturno. Sale sulla motoretta parcheggiata là vicino, e s’al-lontana.
Nessuno mi invita più a scendere, ho assistito alla scena dal finestrino, cui poggiavo la testa.
Mi alzo, scendo, e comincio a camminare: per non so dove… non ricordo chi sono… e dove sto andando?…






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