Racconti di Vincenzo Elviretti

Come back home


vincenzoelviretti@tiscali.it

 

 

 

 Chiusi la porta dietro di me. Mi rimaneva soltanto di passare in agenzia e saldare, così, l’ultima settimana di affitto della topaia che era stata la mia dimora per quasi due anni. Due velocissimi anni, volati via, così, durante i quali avevo… vissuto. Su questa amena isola, l’Irlanda, spersa nel mare del nord in compagnia delle altre isole britanniche. In questa città portuale, Cork, trafitta come lame da due corsi d’acqua che l’attraversano da nord a sud.
Non avevo voglia di disturbare i miei compagni d’appartamento che magari dormivano nella loro stanza. Comunque il definitivo distaccamento delle nostre esistenze era già stato sancito dagli affettuosi addii fatti nel corso del grande “house party” che avevo indetto la sera prima, nel quale erano stati presenti tutte le persone importanti che mi avevano accompagnato in questa mia avventura irlandese. C’era anche Sally, già. Avevamo fatto per l’ultima volta all’amore. Ci siamo salutati come due vecchi amici, non due amanti. Consapevoli l’un l’altro che difficilmente in futuro saremmo potuti stare di nuovo insieme. La vita è strana, certo, non si sa mai quel che può accadere. Però quando si fa ritorno al proprio paesino di tremila persone, con la prospettiva di un monotono ma sicuro lavoretto, mentre la tua metà che non c’è più se ne è andata in America a cercar fortuna come attrice… beh, c’è ben poco da farsi delle illusioni. Sarò fatalista? Pessimista? Chissà… Il tempo potrà dirmi se ho fatto la scelta giusta. Il fatto è che a quarant’anni ho sentito il bisogno di tornare a casa, dopo metà vita passata in giro per il mondo come barista, cameriere, sguattero e quant’altro.
Scesi le scale e mi ritrovai così in strada, Cook street, una delle parallele che attraversano la South mall e la Oliver Patrick. Di fronte a me un ristorante italiano. Non avevo mai capito bene cosa avesse di italiano, però. Sapevo che era gestito da un polacco. Il cuoco era tunisino.
Ma la cucina italiana era da tempo per me un ricordo ben lontano, non ne sentivo eccessivamente la mancanza. Sarà per il mio spirito d’adattamento, ma quando provai per la prima volta l’ebbrezza dell’irish breakfast alle sette del mattino, fettuccine, tortellini e compagnia bella, erano di colpo scomparsi dai miei pensieri. Con un certo scetticismo avevo affrontato quel piatto di salcicce, pancetta affumicata, uova e quant’altro. Ma che carica che mi aveva dato! Mi sentivo come un leone, il mio rincoglionimento fisico strisciante era sparito di colpo.
Mi avvia verso l’agenzia sulla San Patrick street per saldare l’affitto, a saldo della restituzione della caparra. Bussai. “Come in!”, la risposta dall’altra parte della porta. C’era Jeff, il titolare, intento a conversare al telefono, seduto su una sedia da ufficio di quelle che si girano tra se stesse. Le pareti della stanza erano tappezzate di poster sull’Irlanda. Finalmente Jeff mise giù il telefono. Saldammo i conti.
Uscii dall’agenzia e mi avviai verso la strada che costeggia il corso d’acqua maggiore della città e i grandi magazzini “Dunnes”. Mi stavo bagnando ma non me ne stavo accorgendo: una sottile pioggia quasi impercettibile accompagnava la mia transumanza verso la stazione dei bus. Li mi attendeva il pullman che mi avrebbe portato fino alla stazione Busaras di Dublino. “Baile ath Clutch”, era scritto sul display elettronico posto sulla fronte del bus, il nome della città in gaelico, l’antica lingua degli irlandesi. Da li avrei poi raggiunto l’aeroporto sul quale mi sarei imbarcato su un volo della Ryanair, destinazione Ciampino airport, uno scalo che da Cork non è possibile raggiungere con la compagnia low cost.
Feci il biglietto avvalendomi delle macchinette automatiche poste all’interno della sala d’attesa della stazione. Mi attendeva un lungo viaggio. Ma sarebbe stato allietato dalla lettura di un libro di James Joyce. Un autore che avevo scoperto solamente grazie al fatto che mi trovassi nella sua isola natale. Delle vicissitudini dello scrittore irlandese mi aveva interessato il fatto che aveva trascorso un lungo periodo della sua vita in Italia. Pensai che, a parti invertite, avessimo vissuto qualcosa in comune. Leggerlo in inglese era poi una goduria. E anche una soddisfazione personale.
Finalmente le porte del bus si aprirono, depositai le valigie nella stiva dei bagagli, abbandonai la banchina e presi posto sulla destra, immediatamente dietro l’autista. Passai la lingua sulle mie labbra, sapevano ancora di Guinness. Presi il libro di Joyce; infilai le cuffie del mp3 dentro le mie orecchie, lo accesi. La batteria sincopata di Larry Mullen attaccò “Sunday bloody Sunday”. Poi la voce di Bono si impossessò delle mie percezioni uditive.
Dopo quattro ore arrivai alla Busaras. Neanche il tempo di fermarmi un po’ a contemplare le forme di qualche angolo della città, purtroppo il mio volo era fissato di li a un paio d’ore.
Presi il diretto per l’aeroporto.
Mentre mi imbarcavo sul settetresette sentivo una strana sensazione di amarezza dentro di me, salire su. Presi posto vicino all’oblò.
I motori erano accesi, pronti al decollo.
Decollammo. Dall’alto la verde Irlanda mostrava tutta la sua imponenza.
Sull’oblò il riflesso del mio volto che mostrava la comparsa di qualche ruga. Stavo invecchiando. Quello che era non sarebbe stato più.
Stavo acquisendo la consapevolezza che una parte di me era stata lasciata su quella terra ferma dell’Isola di smeraldo.
Una lacrima scese sul mio volto.
Arrivederci Irlanda, prima o poi tornerò a rimpossessarmi di quella mia parte. Almeno per un po’, almeno quando saremo di nuovo insieme.



          






HOME PAGE

 


Cynegi Network