Racconti di Roberto Emanuele Raspatella




Dentro il cerchio



Sono le due passate.
La bottiglia di rhum è ormai quasi finita, e le mie labbra bruciano ad ogni boccata di questo sigaro che pigramente si consuma. Il suo fumo pare come mescolarsi alle note di un jazz che virtuoso s’inerpica sulle quattro mura di un’angusta stanza di un qualche edificio. Un caseggiato che biancheggia al pallido rifulgere della luce lunare, da qualche parte nelle Puglie.
Sono passati pochi mesi dal mio ultimo viaggio di lavoro nei Caraibi, ma a me sembrano un milione di anni.
Perché conobbi lei, Joana.
In quel breve lasso di tempo passato con quel fiore colto sulla luminosa sabbia, credo d’aver provato sensazioni come mai prima, quasi che tutte le ore d’amore trascorse con le donne che ho conosciuto fossero state frivola cosa in confronto a quegli attimi in cui lei gioiosa teneramente m’abbracciava.
Era il colore dei suoi occhi, erano quei capelli bruni dai mille riccioli, era quella pelle liscia priva d’imperfezioni. Era il suo muoversi ed il suo danzare.
Si, perché Joana amava ballare più di ogni altra cosa al mondo. Pareva quasi che nel ballo ricercasse e trovasse il sollievo a qualunque turbamento della sua vita di stenti. Nel momento in cui il suo corpo si scuoteva alle note dei balli caraibici, io affascinato osservavo una sua compiacente metamorfosi. Quel qualcuno invisibile che in lei entrava e che la possedeva, facendola muovere a suo comando. E che poi, un istante prima che cadesse esanime, ne uscisse lesto. Ed allora lei si fermava, e crollava tra le mie braccia. Io altro non potevo fare se non stringerla a me e baciarla, pervaso dall’odore di rhum e di sudore.
Ecco, sento ora il rumore ovattato della testina dello stereo che si colloca a riposo. Non mi sono accorto che il disco è ormai finito, preso come sono dal ricordo di Joana. Potrei alzarmi dal letto e far ripartire la musica. Ma preferisco giacere qui, ricordandomi degli ultimi istanti in cui lei aggrappata a me piangeva, mentre io mentivo nel promettergli un mio prossimo ritorno. Perché sapevo che il mio lavoro laggiù era finito, e che non ci saremo rivisti mai più. Sono stato in tanti altri posti in giro per il mondo, ma i Caraibi rimangono ancora dove sono. Disposizioni dall’alto, non si discute.
E allora mi verso un altro bicchiere di rhum, e decido di studiare la piccola stanza in cui alloggio. Perché ogni tanto staccare è necessario, e questa breve vacanza che mi sono preso e che ho deciso di passare nei pressi di Lecce gioverà certamente al mio spirito. Non servono chissà che capitali, quando si hanno certe conoscenze. Basta solo che queste conoscenze abbiano come parente una zia anziana che affitta camere a nero.
Questa stanza pare un rifugio dal tepore di metà settembre che in questi posti ancora si fa sentire. Ho comunque lasciato la finestra socchiusa, se non altro per far uscire il fumo del sigaro ormai quasi spento.
Un letto al centro. Un comodino. Una piccola libreria. Un pesante armadio di fronte.
Sul comodino ho posato i miei libri di estimo e di architettura, che non leggerò.
Sulla libreria è seduta una marionetta, dev’essere un pupo siciliano. Sotto, una gondola in miniatura, una bambolina, un posacenere con caramelle alla frutta.
E l’imponente armadio di fronte al letto. Vi sono alcuni strumenti musicali posati sopra. Posso riconoscere dei tamburelli, un violino, ed una piccola vecchia fisarmonica. Rimango ad osservarli. Mi affascinano, provo ad immaginare i suoni che possono produrre. Provo a riprodurne mentalmente il timbro, e mi stupisco nell’accorgermi del movimento infantile delle mie labbra. Prima il tam tam dei rotondi tamburelli, che ad ogni colpo liberano un suono che par quasi un percuotersi di pietre tra loro, costellato da una miriade di tintinnii metallici. Poi il violino, le cui vibranti corde generano delicati suoni che come onde gentili si fanno strada nel petto e sommergono il cuore. E la fisarmonica. Chi ha mai abbracciato e suonato quel meraviglioso strumento conosce la sensazione che si prova nel sentir vibrare il mantice a contatto con la propria persona.
Mi sorprende il mio sommesso canticchiare. Un ritmo veloce, simile a quelli che ballavo assieme a Joana. Ma nulla che somigli ad una samba.
Mentre ancora la mia lingua batte sui denti nel tentativo d’imitare suoni percussivi, mi volgo a guardare le due stampe appese al muro. Una rappresenta l’immagine di un santo. L’altra invece la scena di un ballo, con dei musicisti disposti a cerchio attorno a dei danzatori. Ballano scomposti, almeno questa è la mia impressione.
Taccio.
Non so se per il rhum o per il sonno o ancora per chissà quale autosuggestione, ma per un attimo posso sentire dei suoni. No, un insieme di note. Una musica.
Chiudo gli occhi, passando pigramente una mano su di essi. Poi li riapro, e cerco di riprendermi da questo momento di fiacchezza. Ma la musica continua, con un ritmo sempre più definito, sempre più incalzante. Quasi isterico.
Mi alzo.
Con passo esitante mi dirigo verso la finestra, dove barcollando sono costretto ad aggrapparmi agli stipiti. Per un attimo la musica si ferma. Poi riprende, stavolta accompagnata dai canti. Proviene dal bosco di fronte alla casa, e se mi sforzo posso scrutare anche delle luci. Rimango per brevi istanti immobile, incantato.
Quasi non m’accorgo di quel maledetto insetto che mi sta pungendo la caviglia, finché non sento il dolore che diventa insopportabile ed allora cerco di scacciarlo.
La musica.
Ed allora infilo le scarpe ed in tutta fretta abbandono la stanza. Scendo rapido le scale, esco dalla casa senza preoccuparmi di richiudere la porta dietro di me. E mi dirigo verso il bosco.
E’ buio, sono costretto ad usare la torcia incorporata nel mio telefonino. E’ la musica a guidarmi, mentre le foglie dei cespugli mi sfiorano il viso. So che mi sto procurando delle ferite, ma l’alcool mi rende insensibile al dolore.
La musica. Sempre più vicina.
Finalmente, nel mezzo del bosco, dove la vegetazione è meno fitta, mi si apre la scena vista poco prima.
Ci sono i musicisti, con i tamburelli ed i violini e le fisarmoniche, e ci sono dei danzatori che esaltati e scomposti ballano un ritmo velocissimo. C’è un piccolo pubblico che osserva attento.
Mi avvicino, ma nessuno pare notarmi.
Il cerchio s’allarga, e quasi senza accorgermi ne divento parte. Ed allora comincio a danzare, ed a volteggiare sempre più rapido, sempre più rapido..Mi muovo al ritmo frenetico, cercando sulle prime d’imitare gli altri, ma poi arrendendomi a quel percuotere irrequieto dei tamburelli che mi fa vibrare ogni singolo muscolo. E continuo nel mio forsennato piroettare, come in preda a chissà quale demone, fintantoché non provo vertigini ed il mio equilibrio viene meno e scivolo e cado. Ma è solo una falsa tregua, poiché ora mi risollevo e riprendo a dimenarmi, quasi costretto a far uscire da me qualcosa anzi qualcuno, quello stesso qualcuno che, come per Joana, entra nel mio corpo e poi se ne esce e poi ritorna e così per un miliardo di volte. Mi gira la testa, e ancora sento che non è abbastanza. Ed allora accelero il mio muovermi, e m’accorgo che sto quasi cercando di tagliare l’aria con le mani aperte, e queste mie mani paiono spade. Confuso tra il pubblico, quasi mi par di scorgere quel volto femminile che baciavo laggiù, nei Caraibi. E le mie gambe scalciano ormai da sole. E io so che devo continuare, fino alla fine, si, fino alla fine…fino alla fine…fino alla fine…

Sollevo il capo da terra. La luce del sole mi brucia gli occhi. Di fronte a me, alcuni giovani e non giovani dormono adagiati su di un tronco d’albero. Una ragazzina è però sveglia, e appena si accorge dei miei movimenti corre ad aiutarmi. Mi alzo a fatica.
Mi sorride. Poi sussurra qualcosa con accento di Lecce.
- Per quest’anno Santo Paolo la grazia no che non te l’ha fatta…

Roberto Emanuele Raspatella

 

 

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