Racconti di Renzo Montagnoli
A
futura memoria
di Renzo Montagnoli
E’
passato ormai tanto tempo, quasi un secolo, e quei nomi incisi nella lapide sul
frontale della chiesa del villaggio, a futura memoria di chi è caduto per la
patria, non sono altro che lettere sconosciute ai più.
Vado
spesso in quel dolce paese di montagna, ai piedi delle Dolomiti, sia per il
clima mite che per il paesaggio di una bellezza indescrivibile ed un giro per le
strade a curiosare la merce esposta nelle vetrine ormai è divenuto un obbligo.
Il borgo, cent’anni fa invero di modeste dimensioni, si è notevolmente
ampliato in forza del crescente afflusso turistico, ma le caratteristiche dei
suoi abitanti sono rimaste immutate ed ancor oggi la domenica non è difficile
vedere qualche coppia avviarsi alla messa nel tradizionale costume tirolese.
La
chiesa, con retrostante cimitero, è nella piazza del paese e le riservo sempre
una visita, per la sua innata austerità; non manco di soffermarmi davanti alla
lapide e leggi oggi e leggi domani quei trenta nomi ivi impressi hanno finito
per rimanermi nella mente, in particolare uno: Alfred Meister.
Perché
questa preferenza? Perché è morto l’ultimo giorno della prima guerra
mondiale all’età di ventidue anni.
Ho
chiesto in giro se aveva ancora dei parenti, anche alla lontana, ma tutti hanno
scosso il capo; poi un giorno, mentre sedevo su una panchina della piazza, ho
visto il parroco uscire dalla chiesa e mi è balenata un’idea. L’ho
avvicinato e accennando alla lapide gli ho chiesto se qualcuno sapeva di questo
Meister. E’ rimasto un attimo assorto, poi mi ha pregato di seguirlo in
canonica, dove ha frugato fra libroni vecchi e polverosi, trovandone alla fine
uno. L’ha consultato a lungo, poi con un sorriso di compiacimento mi ha detto
che ero fortunato, e nello stesso tempo sfortunato, perché Meister era un
trovatello e che quindi già all’epoca non aveva parenti.
Proprio
per questo i suoi effetti personali erano stati inviati alla parrocchia e
probabilmente si dovevano trovare lì. Avrebbe provveduto a cercarli e poi si
sarebbe fatto vivo con me.
Uscii
in verità un po’ disilluso, sia perché temevo che il parroco sarebbe
riuscito a trovarli, sia perché non mi aspettavo nulla di interessante nella
visione di quelle poche cose.
Ed
invece mi sbagliavo, perché già il giorno successivo il sacerdote si mise in
contatto con me e potei così aprire una piccola cassetta polverosa, dove fra
poveri indumenti trovai un libricino che, esaminato, si sarebbe rivelato per un
diario di incredibile interesse.
Molte
pagine riportavano eventi comuni, o comunque di scarsa importanza, ma alcune
furono un’autentica rivelazione che mi permisero di conoscere Alfred Meister,
benché non l’avessi mai visto e ne ignorassi le sembianze.
Fu
un lavoro difficile, e per la calligrafia minuta, e per la diversità della
lingua, ma alla fine ogni sforzo fu ampiamente ricompensato.
In
particolare, alla pagina 10 Meister scriveva “ Non so se gli italiani sono così
cattivi come li descrive il tenente, ma di una cosa sono sicuro: questa guerra
fa paura a loro come a noi. Prima di ogni attacco non pochi disertano e ci
chiedono di essere fatti prigionieri; non ignorano che non possiamo dar loro da
mangiare, perché non ne abbiamo neppure per noi, eppure preferiscono la morte
per fame all’orrore della guerra; li chiamano disertori, ma hanno più
coraggio di chi resta al suo posto, anche se forse è il solo coraggio che viene
dalla disperazione.”
Alla
pagina 35 “Oggi è morto Fritz, il mio più caro amico; era accanto a me nella
trincea e stavamo parlando, quando si è sentito un colpo di fucile; è
scivolato a terra senza un grido, un lamento, mentre un rivolo di sangue gli
usciva dalla fronte; è da tre anni che faccio questa guerra e di amici ne sono
rimasti pochi; Fritz era l’ultimo. A che serve un sentimento come
l’amicizia, a sopportare meglio i patimenti della guerra o a disperarsi quando
uno di noi se ne va?”
Pagina
47 “Domani dovremo attaccare il nemico; non l’ha detto nessuno, ma hanno
fatto una distribuzione straordinaria di grappa; sempre così quando ci si deve
preparare a morire; l’alcool ottenebra i sensi, toglie ogni volontà.”
Pagina
48 “Abbiamo attaccato, siamo stati respinti, siamo ritornati all’assalto e
ci hanno ricacciato indietro. Abbiamo avuto perdite pesantissime: siamo rimasti
in quindici di un’intera compagnia. Anche gli italiani hanno avuto molti
morti; questa è una guerra che viene vinta solo da chi ha più soldati da
gettare allo sbaraglio e chi trionferà rischia di far più facilmente la conta
dei sopravvissuti che non quella dei morti.”
Pagina
61 “ La vita in trincea è un inferno tale che non mi importa più di vivere o
di morire, anzi quasi invidio chi mi ha già lasciato ed ha quindi posto fine
alle sofferenze.”
Pagina
65 “ E’ settembre e la guerra è già persa; tutti lo sanno, anche se
nessuno lo dice; che senso ha continuare.”
Pagina
71 “Sono arrivate le nebbie di ottobre e con queste la certezza della
sconfitta; migliaia di morti per niente e chi è rimasto vivo e sopravviverà
non sarà più lo stesso, perché l’orrore è entrato in noi; siamo ormai
nient’altro che dei morti viventi.”
Pagina
92 “E’ il 3 novembre e si è sparsa la voce che domani vi sarà
l’armistizio; non mi importa che questo macello finisca; dalla vita non ho
avuto niente, nessun affetto; gli anni in cui speravo di poter conoscere
l’amore mi sono stati sottratti da questa guerra; sono diventato vecchio prima
del tempo e la vita per me non ha più senso.”
Pagina
93, riporta poche righe e si interrompe nel mezzo di una frase “Oggi finirà;
è un’umida giornata di novembre, uguale a tante altre. Non so che farò dopo,
se ci potrà essere un dopo, ma….”
Allegata
agli effetti personali ed al diario c’era una lettera del Ministero della
Guerra ove si diceva, fra l’altro “Il soldato Alfred Meister è deceduto il
4 novembre 1918 sul fronte meridionale, colpito dal proiettile di un cecchino.”.
Non avrei potuto conoscere meglio Alfred Meister, neppure se fossi sempre stato accanto a lui.
La
santa alleanza
di Renzo Montagnoli
La
guerra non era finita da molto, ma agli inizi del 1948, con l’unione dei
socialisti dei Nenni e dei comunisti di Togliatti nel Fronte Popolare, si
verificò in vista delle elezioni di aprile una tensione senza precedenti, tanto
da far temere dei colpi di testa da parte dei due contendenti: il centro e la
sinistra. In una situazione economica drammatica, con la povertà dilagante,
l’Italia praticamente distrutta, si avviò una campagna elettorale senza
esclusione di colpi.
Anche
il paese, nel suo piccolo, fu teatro di dispute, di una propaganda astiosa, a
ogni livello e in ogni luogo, anche in chiesa.
Il
tutto iniziò una domenica mattina dei primi di gennaio, allorché don
Zeffirino, durante la messa, parlando di un episodio del Vangelo, quello della
Pesca Miracolosa, accennò vagamente al fatto che solo con l’ideale cristiano
si sarebbe potuto ritornare a mangiare.
E,
considerato che la portatrice politica di questo ideale era la Democrazia
Cristiana, ai presenti non fu difficile comprendere il significato del
messaggio.
Dell’evento
fu subito informato il Guercio che, immediatamente, come locale segretario del
partito comunista, fece ciclostilare un manifesto, di cui furono tappezzati
tutti i muri della case del paese, frontale della chiesa compreso, e in cui si
diceva semplicemente “Con le parole e con gli ideali cristiani non si
mangia”.
Già
alla messa della sera, poi, i rintocchi delle campane furono sovrastati
dall’inno dell’Internazionale, suonato a tutto volume.
Don
Zeffirino, che prete sì era, ma che, nonostante l’età avanzata, era ancora
ben lucido e che tutto avrebbe voluto, salvo che far sorgere un conflitto in
paese, anche per il fatto che molti dei suoi fedeli erano dichiaratamente
comunisti, decise di correre subito ai ripari e fece sapere al Guercio che
desiderava parlargli.
L’incontro,
di cui ebbero notizia solo i fedelissimi, si tenne in campo neutro e fu così
che verso mezzanotte, in un freddo quasi glaciale, sul vecchio argine coperto
dalla neve si trovarono di fronte i due contendenti.
-
Annibale, scusa se ti chiamo con il tuo vero nome, queste cose non mi piacciono,
possono portare a eventi spiacevoli, a disordini e a chissà a quali altre
disgrazie.
Il
Guercio, che tremava per il freddo nonostante il suo vecchio pastrano militare,
sbottò immediatamente:
–
E il discorso in chiesa, durante la messa, è stato un vero e proprio comizio,
che ne dice? I preti devono pensare solo alle cose dello spirito, perché a
quelle terrene provvedono i politici.
-
Cerca di capirmi, se ti va. Sono un parroco che vuole solo il bene delle sue
pecorelle, di tutte, comuniste e non comuniste. Vedo gente che soffre la fame,
bambini che hanno la pancia vuota, sento il freddo delle case non riscaldate;
devo dare una speranza a questi esseri umani, o no?
-
Anche noi vediamo, anche noi soffriamo e anche noi vogliamo che le cose cambino.
Il
prete rimase un attimo in silenzio, poi mise una mano sul cuore e con gli occhi
che lacrimavano per il freddo e per quello che si accingeva a dire, mormorò:
–
Se tutti e due vogliamo veramente il bene di questa povera gente, non facciamoci
la guerra; ti conosco da tanti anni e so che sei una gran brava persona; vediamo
di intenderci, di evitare che anche noi portiamo il tizzone al fuoco che sta per
divampare. Devi sapere che non mi sono sognato di fare quel discorso in chiesa,
che mi è stato imposto dal vescovo; ad essere sincero, la curia mi ha comandato
di essere più esplicito, ma non me la sono sentita.
-
E va bene, Don Zeffirino. Facciamo un accordo: lei dice solo messa e non fa
politica e io faccio solo politica e non metto di mezzo la chiesa. Può andare?
I
due si strinsero la mano, poi lasciarono quel posto buio e gelido.
La
quiete ritornò in paese e i rintocchi delle campane ripresero a segnare il
tempo dello spirito, ma la tregua durò poco, e non per colpa del parroco.
Dopo
un paio di settimane, dalla corriera che proveniva dalla città scese un giovane
prete, si avviò con passo deciso verso la casetta di Don Zeffirino, pressoché
addossata alla chiesa, bussò, gli fu aperto ed entrò.
-
Buon giorno, padre. Sono Don Riccardo e mi manda Sua Eccellenza il Vescovo, un
santo, la bontà in persona. Pensi che è preoccupato per la sua salute, per
quell’artrosi che l’affatica così tanto, che le impedisce di assolvere alla
sua missione nel migliore dei modi, e allora…insomma ha deciso che le
occorresse un aiuto ed è per questo che sono venuto.
-
Ringrazio Sua Eccellenza il Vescovo, ma in verità non è che io stia poi così
male, e francamente un aiuto non mi serve.
-
Tenga la lettera di Sua Eccellenza, e legga.
Don
Zeffirino si mise gli occhiali e aprì la busta che gli veniva porta. La lettera
era straordinariamente breve e dopo un preambolo sulle sue condizioni di salute
concludeva dicendo che l’aiuto era ritenuto indispensabile e che lui avrebbe
dovuto riposarsi per un po’, non servendo la Santa Messa, così faticosa per
una persona anziana affetta da artrosi; anzi, l’incarico veniva conferito sine
die a Don Riccardo, giovane sacerdote dalle eccelse qualità.
Il
parroco appoggiò il foglio sulla sua scrivania e quasi sbuffando disse di
essere d’accordo con le volontà del suo Vescovo, ben intuendo tuttavia che i
motivi di tanta generosità erano ben altri.
Don
Riccardo officiò subito la messa pomeridiana delle 17, con don Zeffirino tenuto
premurosamente fuori della chiesa con la scusa dell’ambiente freddo.
Alle
vecchiette presenti fece subito una buona impressione, anche perché il giovane
prete
si
poteva tranquillamente considerare un bell’uomo, con i capelli biondi e gli
occhi cerulei, tanto che la Ciuffina ebbe a dire alla vicina di banco:
–
Bello, però. Pare un tedesco.
E
del tedesco aveva la grinta, tanto che quando arrivò all’Omelia, anziché
commentare un passo del Vangelo, andò dritto al sodo:
-
Carissimi fedeli! Il Tempio di Dio è l’unico rifugio, in quest’epoca oscura
in cui le forze del male vogliono impadronirsi delle vostre anime e del nostro
Paese. State attenti, perché esse sono condotte da esseri subdoli che, sotto
un’apparenza di umanità, celano la loro vera natura di diavoli. Ma si
riconoscono bene: sono ammantati di rosso, del rosso del sangue delle loro
vittime. Sono vicino a noi, pronti ad artigliarci, a trascinarci con loro nei
gironi dell’inferno. Diffidate di tutti, anche dei più miti.
– Si fermò un attimo,
scrutando i presenti, poi. – E soprattutto di quelli che hanno un occhio solo.
Soddisfatto,
contemplò lo sbigottimento dei fedeli.
Quando
terminò la funzione, la Ciuffina, che aveva fatto nella Resistenza la
staffetta, corse dal Guercio e gli raccontò tutto.
Il
giorno dopo i rintocchi delle campane che annunciavano la messa delle 7 furono
sovrastati dalle note dell’Internazionale e sui muri apparve un nuovo
manifesto, breve come il precedente, che diceva: “ Salutiamo Don Riccardo che
presto se ne andrà”.
Ma
non se ne andò né il giorno dopo, né una settimana dopo e la contesa
continuò imperterrita fra inni dell’Internazionale a tutto volume e omelie
che erano dei veri e propri comizi in cui compariva sempre l’uomo da un occhio
solo, di volta in volta etichettato come Satana, come Belzebù e perfino come il
tanto temuto baffone.
Dire
che il Guercio non ne poteva più sarebbe troppo semplice; più di una volta gli
era venuta la tentazione di irrompere in chiesa durante la messa e dare un po’
di legnate all’officiante, ma poi si era trattenuto, un po’ per l’innato
rispetto verso il luogo sacro, ma soprattutto per il timore di far apparire
così il giovane prete come un martire.
La
sede del Partito gli faceva continue pressioni per sistemare una volta per
tutte, con le buone o con le cattive, l’autore di quella incresciosa
situazione, ma egli tergiversava perché gli stava venendo in mente un piano
diabolico.
Ci
pensò a lungo, valutò attentamente gli aspetti positivi e negativi della
soluzione e, solo quando fu ben certo che l’esito sarebbe stato una vera e
propria manna, decise di metterlo in pratica.
Una
sera, fece venire alla sua officina Ludovico Bianconi, l’affossatore comunale,
meglio conosciuto come Tricorno per le frequenti infedeltà della moglie, e gli
parlò senza mezzi termini:
-
Scusa se ti ho fatto venire, ma la questione è della massima importanza, tanto
che tutti gli iscritti al Partito, te compreso soprattutto, devono prestarsi
anima e corpo.
Tricorno
lo guardava con occhi bovini e non riusciva a capire come lui, seppellitore e
per lo più pluricornuto, potesse tornar utile al Partito.
-
Non se ne può più di questo Don Riccardo; aizza la gente, è peggio del
diavolo, e io ho trovato il modo di sistemarlo a dovere e definitivamente.
-
Lo pestiamo ben bene fino a farlo morire e poi io lo seppellisco?
-
Ma per carità! A parte che sono contrario alla violenza, ma poi ne faremmo un
martire; io invece voglio sputtanare lui e tutti quelli che sono con lui. Il
paladino della moralità deve essere ripagato con la sua stessa moneta.
-
A dir la verità non capisco…
-
Non m’importa che tu capisca o meno, perché l’importante è che tu mi
aiuti. L’Adalgisa, tua moglie, mi sembra sempre una gran bella donna..
-
La più bella; sarei l’uomo più felice di questa terra se lei non fosse
insaziabile e allora mi sono rassegnato…
-
Non a caso ti chiamiamo Tricorno e lei invece Unapertutti; ma bando a queste
sciocchezze! Che vuoi farci: corna più, corna meno…
-
Sì, e io sopporto, purché non mi lasci.
-
Certo, ma perché mai dovrebbe lasciarti? Lo sanno tutti che lei è innamorata
di te. Allora, ascoltami bene: devi convincere l’Adalgisa ad andare a tutte le
messe e a mettersi in prima fila.
-
E’ una parola! Non va a una messa che saranno almeno dieci anni.
-
Non preoccuparti di questo. Quando torni a casa devi dire semplicemente, con
noncuranza, quasi fosse una constatazione, che lungo la strada hai incontrato il
nuovo quel prete, Don Riccardo, e che sei rimasto stupito di come un uomo così
bello si sia fatto sacerdote.
-
Solo questo?
-
Solo questo e vedrai che basterà. Adesso vai, e mi raccomando ancora una volta:
diglielo come se le dovessi dire che mi hai visto.
Come
l’uomo uscì, bussarono alla porta.
Quando
aprì, non poco fu lo stupore del Guercio di trovarsi davanti Don Zeffirino.
-
Buona sera, Don Zeffirino.
-
Buona sera, Annibale. Sono venuto perché questa storia è durata anche troppo:
le campane zittite dall’inno e la messa trasformata in un palco per comizi. E
poi quel ragazzo mi ha tolto ogni potere; non posso muovermi senza dovergli dire
dove vado e alla sera, invece di recitare insieme il rosario, mi tocca sorbire
le sue filippiche contro i rossi. Ogni tanto mi chiedo da che parte stia Satana.
Insomma, per farla breve, vediamo di trovare un accordo.
-
L’altro sa che lei è da me?
-
Certo, perché sono stato costretto a dirglielo.
-
E che scusa lei ha accampato?
-
Gli ho detto la verità, e cioè che sono venuto a cercare un accordo.
Il
Guercio alzò le mani al cielo per quell’idea che gli era venuta
all’improvviso e disse:
–
Certo, facciamo questo accordo: da domani mattina il suono delle campane non
sarà coperto da quello dell’inno.
-
E in cambio?
-
Niente. Lei, Don Zeffirino, non dovrà fare proprio niente e io le assicuro che
nel giro di una settimana al massimo lei ritornerà padrone della parrocchia.
-
Vedo, Annibale, che nonostante tutto la fede è sempre in te. Che Dio ti
benedica.
-
Buona sera, padre. Torni alla sua casa e dica che ha raggiunto l’accordo e che
il Guercio ha sempre un animo religioso.
Alla
messa delle sette, annunciata dai limpidi rintocchi delle campane, presenziò
anche l’Adalgisa; si sedette sulla prima panca e quando il sacerdote entrò
per celebrare il rito avvertì un colpo al cuore: quegli occhi cerulei
l’avevano conquistata.
La
funzione proseguì come al solito e anche l’omelia fu un comizio del tutto
uguale ai precedenti. Alla fine del discorso Don Riccardo guardò trionfalmente
i presenti e i suoi occhi incontrarono quelli dell’Adalgisa che diventarono
improvvisamente dolci come il miele. Anche lui avvertì qualche cosa, tanto che
dovette dare un paio di colpi di tosse per soffocare quella strana sensazione
che gli stava salendo dalle viscere.
Alla
messa vespertina la donna si presentò con un vestito stretto che ne esaltava le
forme morbide e con uno scialle che le copriva perfino il petto e che, del tutto
casualmente, quando il prete si volse verso di lei, scivolò a terra, svelando
una generosa scollatura che a stento tratteneva i seni abbondanti.
Questa
volta Don Riccardo non riuscì a trattenersi e il comizio diventò una specie di
monologo esitante, con frasi smozzicate, amnesie improvvise, lunghi silenzi,
tanto che non pochi dei presenti pensarono che non stesse per niente bene.
Il
giorno dopo, terminata la funzione del mattino, avvenne la conoscenza diretta,
quando l’Adalgisa avvicinò il bel sacerdote per chiedergli informazioni
sull’orario delle confessioni.
Nemmeno
a farlo apposta, poco prima della messa vespertina, l’Adalgisa entrò nel
confessionale e vi rimase a lungo. Ne uscirono entrambi contemporaneamente: lei
con un sorriso radioso e lui con il viso paonazzo e visibilmente accaldato.
Anche quella funzione fu uno strazio, tanto che l’officiante saltò il
comizio.
E
poi, discretamente spiati dagli uomini del Guercio, finirono per incontrarsi
ogni sera dietro la canonica: carezze, baci, palpeggiamenti, proprio come due
teneri innamorati.
La
notizia di questa imprudente relazione fu fatta abilmente diffondere in paese,
soprattutto tramite la Ciuffina, istruita al riguardo in modo scientifico.
Questa
cominciò nel crocchio sul sagrato in attesa della messa delle 7.
-
Avrà i suoi difetti Don Riccardo, ma bisogna dire che è un gran bell’uomo.
Certo, mi chiedo come possa uno così rinunciare alla compagnia di una donna,
anzi non mi meraviglierei se non ci rinunciasse per niente…
E
le altre all’intorno, chi più chi meno, esprimevano la loro opinione al
riguardo:
-
Eh sì, troppo bello e troppo maschio!
–
Oppure:
– Ma come fa a fare il prete e a rinunciare a certi piaceri un maschio
così…
E
allora intervenne la Ciuffina, con una frase buttata lì, che non sembrava
pertinente al discorso:
–
Non so se avere notato, ma dopo tanti anni ha ripreso a venire a messa
l’Adalgisa, e si mette sempre in prima fila. Inoltre, si confessa ogni giorno,
e sta dentro al confessionale anche mezz’ora. Certo, di peccati ne ha da
raccontare, con quel povero marito che è più cervo di un cervo!
Le
altre, quasi inconsciamente, finirono con il collegare un discorso all’altro
e, anche senza certezze, non poterono che concludere che fra il pretino e
Unapertutti doveva esserci qualche cosa.
Come
un lampo, questa intuizione si trasformò in ghiotta notizia e si sparse per il
paese ad una velocità incredibile, tanto che ne venne a conoscenza anche Don
Zeffirino.
Seduto
sulla sua poltrona a dondolo, e massaggiandosi le gambe doloranti per
l’artrite, meditava sul da farsi: parlarne al vescovo e magari sentirsi dire
che era una sua calunnia inventata di sana pianta per liberarsi di quel curato
scomodo? Affrontare il problema di petto con Don Riccardo, con il rischio però
che questi, sostenuto com’era dalla curia, lo facesse allontanare del tutto
dalla sua parrocchia?
Sembrava
un problema senza soluzione: l’unica cosa certa era che quel prete impostogli
diventava ogni giorno più scomodo.
Non
trovò di meglio che pregare, ma Dio quel giorno sembrava intento a problemi ben
più gravi e nemmeno dopo 50 orazioni aveva le idee più chiare di prima.
Intanto,
il prete dongiovanni poco a poco dimenticava i motivi per cui era arrivato lì:
messe poco preparate - e del resto durante la funzione non aveva gli occhi che
per l’Adalgisa -, niente più comizi, ritardi frequentissimi ai pasti
preparati dalla perpetua, ai quali si accostava peraltro di malavoglia,
rivelando un’inappetenza paurosa che gli fece perdere ben cinque chili nel
giro di una settimana. Inoltre era sempre agitato, passava notti insonni, e
nemmeno all’alba Morfeo gli concedeva la grazia di potersi abbandonare,
proprio perché da lì a poco, alla messa delle 7, avrebbe rivisto la sua
Adalgisa.
La
donna avrebbe voluto portarselo a letto già da un bel po’, ma stranamente in
quel periodo non ci furono morti e quindi il marito se ne stava sempre a casa,
anche per il freddo che pativa in modo particolare, e farlo in campagna sarebbe
stato a dir poco proibitivo, con la neve e con il gelo di quei giorni. Insomma
non si intravedeva una soluzione logistica in tempi brevi.
Poi
arrivò un colpo di fortuna: il vecchio Boldi, 97 anni ancora ben portati,
scivolò sul ghiaccio e, quantunque apparentemente non si fosse fatto niente,
dopo nemmeno tre ore esalò l’ultimo respiro. I funerali si sarebbero tenuti
il giorno dopo e dato che il morto, ateo irriducibile da svariati anni, aveva
lasciato scritto che pretendeva che il rito funebre non fosse religioso, non
c’era pericolo che Don Riccardo fosse impegnato.
Le
esequie si svolsero in un giorno gelido, sotto un’abbondante nevicata che
avrebbe reso più lungo il lavoro dell’affossatore. Insomma, era un insieme di
condizioni ideali.
Quando
in paese non ci fu più nessuno, perché tutti erano al funerale, un’ombra
nera s’accostò alla casa dell’Adalgisa e, trovando la porta socchiusa,
s’infilò rapidamente nel varco.
La
donna, un po’ per esperienza e un po’ per risparmiare tempo, attendeva nuda
sul letto; Don Riccardo sbarrò gli occhi sbavando, poi con ancora la tonaca
indosso fece per gettarsi su di lei che, però, lo fermò.
-
Spogliati, starai più comodo e sarà più bello.
Lui
non si fece pregare, quasi stracciandosi la lunga tonaca, e la raggiunse in un
attimo.
Dopo
un po’ di preliminari e proprio quando, all’apice del desiderio. don
Riccardo si apprestava a compiere l’atto, si udì un urlo disumano e sulla
porta della camera da letto apparve Tricorno che imbracciava un fucile da
caccia.
-
Delinquenti, vi ammazzo tutti e due! Porco di un prete, te lo faccio vedere io
ad approfittare di una donna sola e indifesa!
L’altro,
nudo come un verme, si era raggomitolato come un riccio e guardava con occhi
sbarrati la canna del fucile puntata contro di lui.
Tricorno
tirò con forza il grilletto, ma si udì solo un click; e di quell’insuccesso,
tutto preventivato perché nell’arma non c’erano cartucce, approfittò
immediatamente Riccardo, balzando dal letto come una tigre. Con una spallata, il
biondo pretino buttò da una parte il marito apparentemente inferocito, poi, con
la tonaca in mano, corse giù dalle scale e guadagnò l’uscita.
Sulla
porta però si fermò: sotto la fitta nevicata c’era tutta gente del paese che
l’aspettava. Nudo com’era, si raggomitolò nuovamente a riccio e si sentì
mancare, ma prima di perdere i sensi vide chiaramente il flash di una macchina
fotografica.
Inutile
dire che Don Riccardo fu richiamato velocemente dal vescovo, che lo destinò a
un periodo di lunga penitenza. Il suo posto non fu preso da nessun altro e così
Don Zeffirino testò a dirigere la sua parrocchia, evitando nell’omelia
qualsiasi accenno politico, mentre il Guercio riprese la campagna elettorale con
i toni decisi, ma moderati. che gli erano propri.
L’Adalgisa
ritornò a disertare le messe e si consolò ben presto con gli altri maschi del
paese.
E
Tricorno?
Continuò
il suo lavoro, orgoglioso per una volta delle proprie corna.
(Da “Storie di paese”)
ALTRI RACCONTI
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