Racconti di Bruna Alasia




I racconti di Versaille

LA PRIMA NOTTE DI LUIGI XVI

Racconto primo


 

   Maria Teresa d’Austria nel 1736 andò in sposa al principe Francesco di Lorena, uno degli uomini più belli del suo tempo, ed ebbe la fortuna, rarissima tra le giovani del suo rango, di legarsi a qualcuno che le piaceva davvero. Lo dominò e ne fu rapita, gli si concesse con tale trasporto che per un intero ventennio rimase incinta. Quando l’imperatore morì, Maria Teresa cadde in depressione, si tagliò i capelli che erano stati il suo orgoglio, non mangiò e non dormì, si vestì di nero, calcolò ossessiva le ore insieme 258.774. Faticò molto a riprendersi ma la sua ferrea salute alla fine ebbe il sopravvento e a quel punto, quasi prosecuzione della naturale prolificità, ragione di vita per lei divenne l’espansione della dinastia e degli stati. Usò i suoi figli per raggiungere questo scopo: i maschi furono chiamati a responsabilità di governo, a prescindere dalle loro inclinazioni, le femmine a contrarre matrimoni vantaggiosi per gli Asburgo. Malgrado avesse avuto una famiglia affettivamente armoniosa - o al contrario forse proprio perché non aveva mai conosciuto la sofferenza di questa privazione - non considerò che ciò fosse importante anche per loro: fu una madre rigida, insensibile e invadente. Ma tutta la nobiltà europea all’epoca pensava che l’imperatrice fosse un esempio. 



Da anni Maria Teresa coltivava una grande ambizione: consolidare l’alleanza con la Francia attraverso le nozze di una delle figlie più giovani, le adolescenti arciduchesse, con l’erede al trono Luigi Augusto, nipote di Luigi XV. Così quando nel 1768 Maria Teresa seppe che il re di Francia era rimasto vedovo, se ne rallegrò molto e studiò subito un doppio affare: offrire a Luigi XV ormai sessantenne la sedicenne Elisabetta, al nipote la piccola Antonia di appena tredici anni. Ne parlò un giorno con il conte Mercy-Argentau, ambasciatore austriaco a Versailles. Pranzando con lui a Hofburg, in uno dei suoi lussuosi appartamenti, l’imperatrice gli confidò i suoi piani. L’elegante, dinoccolato Mercy, servendosi la verdura che sempre consigliava Van Swieten, il celebre medico di corte, le diede una delusione:



- Maestà devo purtroppo mettervi al corrente che il Re di Francia si è saputo consolare con una favorita bellissima e molto giovane… la Contessa du Barry…



- La Contessa Du Barry?



- Così è stata insignita… – Mercy-Argenteau le si avvicinò abbassando la voce - in realtà un sedicente conte Du Barry l’ha fatta prima sua amante, poi prostituta d’alto bordo… e poi Luigi XV… 



- Oh, mio Dio!



- Per dare alla fanciulla prove di nobiltà – continuò il fedele Mercy-Argenteau – il duca di Richelieu ha scovato una contessa decaduta che per danaro si è prestata a far da madrina… a Versailles non si parla d’altro… madame du Barry è potentissima, Luigi XV stravede per lei…







Ma il destino condusse gli eventi in modo che il re di Francia ritenesse infine utile inviare la proposta di matrimonio tra il delfino Luigi Augusto e l’arciduchessa Antonia, quindicesima figlia di Maria Teresa. La domenica di Pasqua del 1770 l’ambasciatore francese, in qualità di rappresentante di Luigi XV, fece pubblicamente ingresso a Vienna alla testa di quarantotto magnifiche carrozze, trainate ciascuna da sei cavalli e scortate da centodiciassette fanti. A Vienna i festeggiamenti presero l’avvio.



Dopo aver fatto ufficiale rinuncia al diritto di successione alla madre, nei giorni seguenti la piccola Antonia, dovette congedarsi con dolore dalla corte viennese e partire per il regno di Francia. Un viaggio di otto-nove ore quotidiane su una carrozza che velluti e oro non rendevano più comodo, attraverso stati asburgici, principati, città-stato tedesche, tenendosi accanto Mops, l’adorato cane, un carlino fulvo, unico legame fisico con ciò che lasciava. Tre settimane dopo giunse all’isola delle Spezie, una lingua di terra in mezzo al Reno considerata neutrale, scelta per la sua consegna alle autorità francesi. Sull’isola per quella cerimonia, chiamata del commiato, era stato costruito un piccolo castello di legno che comprendeva cinque stanze - due in territorio austriaco, due in quello francese, una in centro – che i ricchi di Strasburgo avevano contribuito ad arredare con mobili e suppellettili. Il giorno stabilito Maria Antonietta, tutta vestita d’oro, frastornata, collocata dalla delegazione austriaca su un palco preso in prestito dall’università luterana, poté ammirare la sala centrale ornata di arazzi: grandi e vivaci rappresentavano il mito di Medea che, respinta dall’amato Giasone, per punirlo aveva ucciso i figli. Davanti a quella macabra rappresentazione, uno sconosciuto visitatore di nome Wolfgang Goethe, a quel tempo studente di legge a Strasburgo, era rimasto scandalizzato al punto da annotarlo nei suoi libri. Ma la futura Maria Antonietta stanca, stressata dal cambiamento e interessata ad altro, non ci fece caso: del resto non ne conosceva il significato perché, a parte il fatto di essere molto giovane, detestava lo studio.



Gli addii furono strazianti: Antonia non poté tenere con sé nemmeno Mops.



- Devi separartene – disse Mercy-Argenteau guardandola dalla sua alta statura.



- Ma perché?!



- Adesso sei in territorio francese.



- E allora?



- Questi sono gli ordini.



Mentre il cagnolino veniva condotto via la ragazzina scoppiò in lacrime.







Il 14 maggio 1770 la Delfina giunse a destinazione a Compiégne, residenza di campagna dei reali, attigua a una verdissima foresta. Si erano dati appuntamento nel punto in cui la strada attraversava il fiume Oise, sul ponte di Berne, dove la natura respirava. Luigi XV arrivò in una carrozza sulla quale avevano trovato posto tre delle sue figlie nubili e il promesso sposo Luigi Augusto che stranamente sembrava seccato dell’incombenza. Il re di Francia, al contrario, non vedeva l’ora di appagare la curiosità: si trovò di fronte un’adolescente non molto alta, snella, scarsa di petto, chiara di pelle, di occhi e di capigliatura. Una tipica austriaca la cui fronte spaziosa, il naso aquilino, il labbro inferiore pronunciato, conferivano un’aria rispettabile. Non ne fu deluso. Antonia era stata pettinata alla francese, portava un abito con la crinolina, sontuoso e gonfio come una vela. Mentre a distanza la folla curiosa l’acclamava, il duca di Choiseul, che aveva curato le trattative matrimoniali, le diede il benvenuto. Poi si fecero avanti Luigi XV e il Delfino in una profusione di cerimonie e inchini. Antonia salì in carrozza sedendo tra i due. Sbirciava lo sposo con la coda dell’occhio trovandolo ordinario: corpulento, pienotto di viso, l’aria imbronciata sotto le scure sopracciglia. Lui, visibilmente imbarazzato, non la guardava. Antonia prese a conversare con il vecchio re. Quel giorno, il futuro Luigi XVI, non degnò la nuova arrivata di una sola gentilezza. Rassegnato agli eventi, ai quali si sentiva obbligato, prima di coricarsi si limitò a scrivere sul diario “Incontro con madame Delfina”. Fu tutto. Ma la sera Maria Antonietta ebbe la sorpresa di trovare in bella mostra sulla toilette, riflessi nella grande specchiera dalla cornice dorata, i gioielli di valore inestimabile che erano appartenuti alla regina defunta e che avrebbe indossati il giorno delle nozze, 16 maggio 1770. 



Quindici anni lei, sedici lui: l’età degli sposi. Il popolo era stato invitato al matrimonio: nella reggia di Versailles, nei suoi giardini, ammessi tutti coloro che erano vestiti decentemente, nelle strade, nelle piazze il cibo distribuito, il vino versato a chi voleva brindare alla loro salute. Al mattino, attraversando i cancelli del celebre palazzo, la Delfina fu sbalordita dall’andirivieni. Carpentieri, pirotecnici, tappezzieri, mobilieri, cuochi. Il cortile dei marmi, col suo ammattonato di losanghe bianche e nere, lavato da poco sembrava risplendere. Poi una moltitudine di dame di corte, cameriere, acconciatrici, la rapì per la toilette. All’una, in uno splendido abito di broccato bianco, Maria Antonietta entrò nella stanza del re dove il Delfino la stava aspettando. Lui le diede la mano come richiedeva il protocollo e la condusse dove i cortigiani li attendevano, nella galleria degli Specchi di cui ogni corte europea invidiava lo scintillio di luci sotto soffitti d’oro. L’arcivescovo di Reims celebrò la funzione religiosa nella cappella di Versailles.







Galantina d’uccelli, fagioli alla bretone, cavolfiori alla parmigiana, pane ai funghi, aringhe alla mostarda, piccoli paté, trota alla Chambord, sogliola alle erbe fini, luccio alla polacca, merluzzo alla crema, arrosto di montone di Choisy, manzo alla scarlatta, piccioni all’ortolana, tordi, fagiani, crema alla Genest, profiterolles, dolce di Baviera, innaffiati di borgogna e di champagne, erano solo alcune delle portate del fastoso banchetto che, accompagnato da musiche e luminarie, seguì la cerimonia. Luigi Augusto e Antonia, storditi, fecero appena un assaggio. A notte, dopo la cena, ebbe inizio l’antica cerimonia che i francesi chiamavano del coucher. Furono accompagnati nella loro camera, immensa, con grandi specchi e drappi di broccato. Tradizione voleva che la corte fosse presente la prima notte che i principi andavano a letto insieme. Luigi XV, in segno di stima, diede la propria camicia al Delfino e la duchessa di Chartres, nuora del primo principe di sangue reale, la sua alla Delfina. L’arcivescovo benedì il talamo davanti a cui stavano gli sposi: Maria Antonietta con studiata compostezza, Luigi Augusto, malgrado gli incoraggiamenti del nonno libertino, con enigmatico mutismo, bloccato dall’ansia della prestazione. I due si infilarono sotto le lenzuola studiati dalla folla: le cortine del baldacchino vennero chiuse, poi di nuovo riaperte perché il mondo constatasse che giacevano insieme. Quando, dileguati i presenti, rimasero soli, storditi dalle cerimonie, impacciati, non fiatarono e non si avvicinarono l’uno all’altra. Del resto oltre a non conoscersi parlavano lui francese e lei tedesco. Fu Maria Antonietta a esordire nella lingua del consorte che aveva imparata dall’abate Vermond, suo precettore sin dai tempi di Hofburg:



- Mi sembrate molto provato.



- Si madame, sono molto stanco.



- Non preoccupatevi, abbiamo tempo.



La giovinetta fece scivolare la sua mano verso quella del Delfino ma, impercettibilmente, lui si ritrasse. Silenzio pesante. Antonia raschiò la gola:



- Dormite?



- Non ancora.



- Nemmeno io.



Lei avvertiva il suo respiro lieve. Dei colpetti di tosse imbarazzati. Si girarono su un fianco voltandosi le spalle. Sapendosi lontano da casa, Maria Antonietta provò una fitta: il viaggio era durato quasi un mese e ora cominciava un’esistenza diversa, se ne rendeva conto perché il peso di quei giorni turbinosi le cadeva addosso. Pensava a sua madre, alla quale aveva sempre ubbidito per farsi amare e dalla quale non si era mai sentita completamente protetta. Pensò alla sorella data in sposa a un sovrano debole di mente per consolidare gli Asburgo nel regno di Napoli e ricordò quello che la mamma aveva scritto sulla sorella : “Sarò contenta finché adempirà ai suoi doveri verso Dio e verso suo marito e si guadagnerà la salvezza, anche se questo la renderà infelice”. Lei, cosa l’aspettava? Sarebbe stata felice? 



Il Delfino immobile intuiva l’alba dietro le grandi vetrate, non aveva chiuso occhio tutta la notte, prostrato come davanti a troppi esami. Il futuro Luigi XVI era un insicuro. I suoi genitori avevano prediletto con decisione il fratello maggiore, un bambino che ritenevano dotato di tutte le virtù adatte a un principe ma che, come spesso accadeva a quel tempo, era morto in tenera età. Luigi, quasi ne avesse usurpato il titolo, ora non si sentiva degno della sorte regale. Quando sua madre e suo padre morirono di tubercolosi, passò nelle mani del duca di La Vauguyon, tutore autoritario e meschino che finì di castrare la sua fragile personalità e ne accentuò l’introversione. Convinto di non suscitare interesse non osava lasciarsi andare all’amore di nessuno.



Al mattino i domestici non permisero agli sposi di oziare a letto perché la giornata era dedicata alla noiosa presentazione alla Delfina di una schiera infinita di cortigiani. Maria Antonietta si alzò, con rassegnata compostezza si affidò alle dame per la vestizione. In un momento in cui si trovò solo il futuro Luigi XVI appuntò velocemente sul diario: “Nulla”. 



Nei giorni seguenti la Delfina cercò spesso l’abate Vermond, che da Vienna l’aveva seguita a Versailles e del quale ora, in terra straniera, sentiva di avere ancora più bisogno. L’arciduchessa non sapeva come ci si dovesse comportare tra marito e moglie e provava un certo imbarazzo a parlarne con il sacerdote ma, proprio per questo, la sua benedizione era importante.



- Fino ad oggi il Delfino non mi ha baciata, non mi ha neanche toccato la mano - si confidava percorrendo con lui in carrozza i vialetti intorno all’aranceto, così perfetto da sembrare finto.



- Date tempo al tempo e non preoccupatevi – rispose l’abate, che aveva sempre saputo guadagnarsi con tatto e discrezione la sua benevolenza e che, rassicurandola, aveva cementato il suo incarico. Ma la notizia in realtà era sulla bocca di tutti e, seppur sembrasse prematuro dolersene troppo, non era apparsa di buon auspicio, come non lo era la sciagura del 30 maggio, giorno in cui i festeggiamenti nuziali si erano conclusi a Parigi con uno spettacolo di luminarie, spari e fuochi d’artificio.



Al termine dei fuochi notturni la folla tumultuosa che si era radunata sull’immensa piazza Luigi XV, oggi Place de la Concorde, ansiosa di andare a far baldoria nei boulevards aveva imboccato nel buio pesto la rue Royale, sventrata da canali in costruzione. Quasi senza accorgersene i parigini vi era caduti dentro come topi, uno sull’altro, schiacciati, calpestati, soffocati, insieme a cocchieri e cavalli. Il panico, dilagato in un pigia-pigia mortale, aveva fatto il resto e alle prime luci dell’alba il numero dei deceduti era arrivato a centotrentatre. L’elemosina di Luigi Augusto e di Maria Antonietta non ripagò il dolore dei sopravvissuti.







Con gli anni la confidenza tra il Delfino e madame si approfondì ma non il loro rapporto fisico. I due giovani a volte si evitavano e accennavano alla “cosa” con imbarazzo. Il povero Luigi, che viveva il problema come un imputato sul banco, era sotto stress, tanto più che qualcuno aveva iniziato a ventilare la necessità di un’operazione chirurgica. Per rilassarsi amava ritirarsi nella residenza di Compiégne castello che suo nonno stava facendo ristrutturare, vicino alla foresta nella quale preferiva andare a caccia.



Un giorno il futuro re di Francia riuscì finalmente a dire alla moglie :



- Non ignoro ciò che il matrimonio comporta. Vivrò con voi in intimità coniugale durante il tradizionale soggiorno estivo della corte a Compiègne.



- Dal momento che dobbiamo vivere in intima amicizia – rispose Maria Antonietta – dobbiamo fidarci e parlare di tutto tra di noi.



Tuttavia quando giunsero a Compiègne, così invitante con la sua aria fresca e boscosa, il Delfino mangiò tanto, come spesso accadeva, ma questa volta al punto da averne un’indigestione molto seria. Che lo avesse fatto apposta? Fatto sta che si sentì male, vomitò, ebbe la febbre e di nuovo fu deciso che i due dormissero separati. Le notizie che arrivavano dalla Francia esasperavano Maria Teresa d’Austria: l’inettitudine del genero rischiava infatti di mandare a monte quel capolavoro strategico che aveva tessuto in anni di rapporti diplomatici e per di più sua figlia sembrava non saper far fronte all’impasse. Luigi Augusto si sottopose alle cure dei medici: fece bagni, bevve pozioni, ingerì limatura di ferro. Fu auspicato nuovamente un intervento ma il chirurgo, per fortuna, stabilì che avrebbe peggiorato il suo stato psicologico e che tutto dipendeva solo dalla sua volontà. Il nonno, che di persona aveva controllato che non ci fossero malformazioni, fu d’accordo. Luigi, che di regnare avrebbe fatto a meno bisognoso com’era di affetto, malgrado i problemi sembrava essersi affezionato alla moglie che gli avevano imposto, e spesso si ritirava con lei per cenare da soli. Finalmente tre anni dopo la Delfina scrisse una lettera alla madre nella quale affermava che il marito era stato “ più premuroso del solito”. Era accaduto proprio a Compiègne: lui assicurò di aver fatto sua Maria Antonietta e il nonno raggiante, presi i nipoti per mano, li baciò. In realtà il regale giovanotto era riuscito soltanto a deflorarla senza completare l’atto e per molto tempo ancora Maria Antonietta non rimase incinta.



Nel 1777 accade un fatto nuovo. Giuseppe II, imperatore d’Austria e del sacro romano impero, fratello di Maria Antonietta divenuta nel frattempo regina di Francia, decise di affrontare la fatica del viaggio per recarsi a trovare la coppia infeconda, con l’intenzione di esaminare accuratamente il caso. Viaggiava sotto le false spoglie del “conte di Falkestein” e quando arrivò a Parigi il suo ambasciatore Mercy-Argenteau non poté riceverlo perché era a letto sofferente di emorroidi. L’imperatore non se ne curò e preferì prendere alloggio in una locanda di Versailles evitando di partecipare ai rituali mondani della corte. Ma fu assiduo con i due coniugi, per tre settimane li studiò, li rimproverò e li sorresse, quando finalmente riuscì a capirne il mistero, in una lettera al fratello Leopoldo, Granduca di Toscana, spiegò dettagliatamente: Luigi ha erezioni forti, di buona tenuta; introduce il membro, resta là un paio di minuti e si ritira senza mai eiaculare, sempre in erezione, e augura la buonanotte… Si accontenta di questo dichiarando semplicemente che lo fa solo per dovere e non prova alcun piacere. Ah, se potessi essere presente una volta gliel’avrei fatta vedere io! Bisognerebbe frustarlo per farlo eiaculare di rabbia come gli asini. 



Luigi XVI aveva un blocco psichico, dal quale neanche i re sono esenti. Ma gli altri di affannavano tanto perché la nascita di un erede aveva precise implicazioni politiche, garantiva la continuazione della monarchia ereditaria e di ascendenza divina, era la vittoria della vita sulla morte! Sicché quando, a tre mesi dalla partenza di Giuseppe II, a sette lunghi anni dalle nozze, Maria Antonietta scrisse alla madre che il matrimonio era stato realmente consumato e che la prova si era ripetuta, il fratello di Luigi XVI che aspirava al trono per il proprio primogenito, rimase deluso, ma tirarono un sospiro di sollievo l’Imperatrice d’Austria e tutti coloro che avevano nella faccenda qualche interesse. Anche se i costumi andavano mutando e spirava un filosofico vento di liberazione, la vita dei sovrani coinvolgeva, eccome! Si sa che era soprattutto la vita sessuale quella che, come oggi, suscitava la più grande curiosità e i più forti sentimenti di odio e di amore. 


MADAME DU BARRY


DETTA L’ANGELO


Racconto secondo


 

  Luigi XV, detto il Beneamato, non si era mai posto il problema di cosa fosse nella sua essenza la regalità, viveva nella certezza che il sovrano fosse un essere superiore e del tutto diverso dai comuni mortali, come i suoi precettori gli avevano inculcato. Asceso all’età di cinque anni al trono di Francia, si sentiva investito da Dio per elezione con la missione di difendere la religione cattolica. Credendosi una emanazione della divina provvidenza fu sempre sicuro che il padreterno non lo avrebbe mai punito, fossero pure i suoi peccati gravissimi. Senza preoccuparsene, dunque, tutta la vita si crogiolò nella tentazione. A sessant’anni aveva già regnato per più di mezzo secolo ma, indolente e poco amante del mestiere di re, lo aveva fatto delegando ad altri gli spinosi affari della politica per dedicarsi a ciò che gli premeva: le donne belle, la buona tavola e la caccia al cervo.



Come marito e come padre il Beneamato non si era impegnato molto, così non si impegnò come nonno. Suo nipote, il futuro Luigi XVI, evitava di incontrarlo perché ne aveva soggezione ma, pur credendolo un eletto, in fondo biasimava la sua esistenza libertina. Lo stesso faceva sua moglie Maria Antonietta che, appena arrivata a Versailles, era rimasta fortemente scioccata dall’incontro con la sua favorita, Madame du Barry. 



Al tempo in cui il delfino Luigi Augusto festeggiava le nozze con l’ arciduchessa Antonietta, una quarantina di membri della famiglia reale si erano riuniti per cenare nel grazioso castello di La Muette, situato nel Bois de Boulogne. Tra gli invitati Maria Antonietta era stata colpita dall’avvenenza di una donna alta, dallo sguardo tenero incorniciato di riccioli color grano, dal seno candido e prorompente evidenziato da un abito sontuoso. Invidiandone l’ eccezionale bellezza si domandò perché nessuno si fosse preoccupato di presentargliela.



- Chi è quella signora? – chiese a Madame de Noailles, sua dama di compagnia.



- Madame su Barry è incaricata di far divertire il re… – rispose l’altra a metà tra l’ imbarazzo e il disappunto.



- Che bella occupazione! Vorrei essere al posto suo – ciarlò la ragazzina.



Madame de Noailles alzò un ciglio:



- Cosa ? Maestà, sapete quel che dite?



Maria Antonietta, dopo un attimo di esitazione, all’improvviso capì che si trattava dell’amante ufficiale del nonno. Non lo avrebbe detto in quel luogo e in quella occasione: pensò che doveva avere un grande ascendente sul re visto che le era permesso, malgrado facesse scandalo, sedere a tavola con tutta la crema dell’aristocratica parentela e degli ospiti illustri. Com’era bella quella donna! Com’era sfrontata, com’ era potente senza titolo alcuno. Da quel momento la delfina entrò in competizione con lei dichiarandole guerra. La detestava perché di fronte a quel fascino primitivo e sensuale, persino il lignaggio veniva sminuito e per una futura regina, titolo a cui Maria Antonietta aspirava, questo rappresentava una minaccia, tanto più grande quando scoprì che la du Barry veniva dai bassifondi, come in seguito seppe dalle zie che la odiavano senza pudore. 



Era il 1768. Sulla soglia dei sessant’anni, il sovrano si ammalò di depressione per la scomparsa di madame Pompadour, sua amante per un ventennio e stimata consigliera. La dolorosa perdita si sommava inoltre a gravi lutti familiari: a distanza ravvicinata gli erano mancati la figlia, il figlio e il nipote delfino. L’interesse del re per la vita sembrò essersene andato, la cattiva salute della regina peggiorò la situazione. Ma inspiegabilmente, proprio negli ultimi mesi della malattia della moglie, Luigi XV di colpo era sembrato risorgere. Non si trattava però di un miracolo: presto si scoprì che la guarigione si doveva a l’Ange, cioè all’ “Angelo”, come era chiamata Jeanne Béçu, una signorina molto nota negli ambienti più libertini di Parigi. 



Luigi XV l’aveva incontrata durante una delle solite uscite di palazzo.



La carrozza reale attraversava due ali di folla quando una giovanetta procace, vestita in maniera vistosa, ritta sul suo percorso, si era lanciata verso di lui tentando di prendergli la mano:



- Maestà, vi adoro… – e liberò da nastri e spilloni, con gesto inconsueto e trasgressivo, la sua chioma di seta.



Sedotto da tanta leggiadria, il vecchio sovrano aveva sorriso e in seguito si era affrettato a domandare chi fosse a Le Bel, il valletto di camera che con lei aveva scambiato due parole.



- Si chiama Jeanne – aveva risposto Le Bel - ma per tutti è l’Ange… giovane signora che ha contratto un matrimonio in bianco.



Sul volto del re apparve un sorriso molto soddisfatto:



- E’ il caso che io la conosca, Le Bel, datti da fare per portarla a corte.



Ciò che Luigi XV non sapeva era che l’Ange era una prostituta che con le sue arti aveva convinto lo stesso valletto affinché la ponesse bene in vista sul percorso regale, facendolo contravvenire con grande rischio alla norma che ne vietava l’ accesso alle cortigiane professioniste. 



La vita di Jeanne era stata avventurosa: nata nel 1743 a Vaucouleurs da un frate francescano, chiamato fratello Ange, e da una donna di umili origini, cresciuta a Parigi, aveva ricevuto un minimo di educazione nel convento delle Adoratrici del Sacro Cuore di Gesù. A quindici anni, tornata in famiglia, le era toccato pensare al proprio mantenimento. Sua madre, sarta e cuoca, spesso aveva contato sulla generosità di amanti occasionali e d’istinto Jeanne la prese ad esempio. Domestica prima, commessa poi in un negozio di moda, quindi aiuto parrucchiera, si era data senza risparmiarsi a numerosi ammiratori ma, a causa di un’ avvenenza folgorante unita alla fragilità di donna sola, spesso era finita nei guai. Ambiva come tutti a una vita piacevole, a indossare bei vestiti, a possedere gioielli. Era disposta a investire molto: suo capitale una grande sensualità che voleva far fruttare. Quando a ventuno anni conobbe il sedicente conte Jean Baptiste du Barry pensò che questo avventuriero scaltro le sarebbe stato di aiuto. Divenne sua amante e di li a poco lui fece di Jeanne quella che oggi chiameremmo “una squillo di alto bordo”.



Jean Baptiste du Barry discendeva da una famiglia di notabili provinciali che possedevano a Levignac sulla Save alcuni appezzamenti di terreno. A Tolosa, dopo aver cercato di farsi strada come avvocato sposando una moglie ad hoc, si era ricoperto di debiti rischiando la rovina. Megalomane e ambizioso, aveva cercato la rivincita nella grande capitale dove trasformò il suo amore per la dissolutezza in una redditizia professione. Energico, temerario sino alla violenza e alla sopraffazione, possedeva ciò che anche oggi distingue molti uomini di potere: il gusto della provocazione fine a se stessa e un’assoluta mancanza di scrupoli. Lo chiamavano roué, ruotato, meritevole cioè del supplizio della ruota, come Filippo d’Orleans definiva i compagni di bagordi. Con il danaro si permetteva una vita da gran signore: nella sua fastosa casa attirava libertini, scrittori di successo, curiosi. In compagnia delle giovanissime e graziose protette frequentava i luoghi alla moda ma, pur vendendo bene i favori delle fanciulle, era ancora in attesa dell’occasione che avrebbe definitivamente cambiato la sua vita.



Questa occasione gliela offrì l’Ange.



Incontratala nel 1764, il sedicente conte capì subito come possedesse qualità eccezionali, dovute non solo alla bellezza. La portò a vivere con sé, guidò il suo tirocinio erotico. Quando arrivarono i clienti fu un successo tale che l’ispettore di polizia Mathieu Marais, il 27 settembre 1765, classificò come “esistenza infame” il numero quotidiano di appuntamenti con uomini di tutte le età. L’Ange, mise a verbale Marais scandalizzato, veniva “affittata a chiunque purché nobile e facoltoso”. 



Tra i tanti signori a cui era stata offerta, c’era anche il duca di Richelieu. Costui, grande gaudente e libertino, apprezzava molto i favori sessuali dell’Angelo e dopo l’amore qualche volta si fermava da du Barry a cenare. Una sera, nel salotto ricco di broccati, alla fine di un pasticcio di selvaggina generosamente accompagnato da un vino delle Borgogna, Richelieu sciolse la lingua con più convinzione e allegria del solito:



- Sapeste… sua maestà si sta spegnendo, pensare che era un tombeur des femmes! Tutti si danno da fare per trovargli una sostituta della Pompadour, ma finora non c’è riuscito nessuno… farebbe un bel colpo chi potesse…



- E perché pensate abbiano fallito? – chiese du Barry



- Ci vuole carne fresca e di prima scelta. Con l’età il re è diventato molto esigente! – rise allusivo Richelieu.



Il ruotato si accodò, ma non osò confessare l’intuizione che improvvisa lo aveva folgorato: Jeanne era l’amante perfetta da proporre a Luigi XV! Il giorno dopo era già corso a cercare l’ onnipotente valletto di sua Maestà.



La sera che Jeanne Bécu fu introdotta alla presenza del re indossava una veste immacolata, elegante e virginale, adatta alla parte di “sposa in bianco”. Si era lavata con molta acqua calda e il suo sesso aveva ricevuto il battesimo d’ambra, quel rito di profumazione per cui era famosa. Al tempo in cui gli aristocratici si pulivano pochissimo, pisciavano a ogni angolo della reggia, indossavano parrucche intrise di sudore, Jeanne si lasciava dietro una scia di primavera, si muoveva con passi seducenti, avviluppava nelle sue spire amorose. Luigi XV, malgrado la vita da gaudente e le molte esperienze amatorie, non aveva mai conosciuto un’autentica professionista. Nemmeno al Parco dei cervi, ritiro di Versailles dove aveva messo al mondo una dozzina di bastardi, gli era capitato di provare ciò che sperimentò quella notte. Jeanne Beçu, istruita dal du Barry e per nulla intimidita dal regale cliente che sentiva disarmato nella nudità, compì il suo capolavoro.



Alcuni giorni dopo passeggiando per il parco con il bigotto duca di Noailles il re confidò estatico:



- Quella donna possiede l’arte di rianimare i miei desideri.



- Sua Maestà non è mai stato in un bordello – rispose con sincerità il duca.



Ma Luigi XV, trasognato e con la mente altrove, non afferrò.



Il monarca e l’Ange si incontrarono ancora e poi ancora e presto divenne chiaro a tutti che la loro frequentazione stava passando da saltuaria a stabile. Preoccupato per lo scandalo che ne sarebbe derivato, assalito dai rimorsi, Le Bel decise, non senza angoscia, di rivelare al re la verità. Con pazienza lo sorvegliò dall’ occhio di bue, sala attigua a quella del sovrano così chiamata per la finestra tonda, dove i visitatori illanguidivano lusingati di fare anticamera per ore sotto una volta di stucchi e putti d’oro. Nel momento in cui fu solo, fattosi coraggio, il valletto chiese di parlargli. Il Beneamato , stupito e temendo noie, lo guardò diffidente.



- E’ per via di madame… - lasciò cadere Le Bel.



- Madame? 



- Maestà perdonatemi…



- Dimmi Le Bel…



L’altro deglutì sibilando:



- Si dice che Madame abbia avuto molti amanti, addirittura che sia una professionista…



Attimi di panico e silenzio.



- E chi lo dice?



- Tutti… la corte, Maestà… il passato di madame…



Il sovrano lo bloccò:



- Quale passato? Il passato non esiste…



- Maestà…



- Chi ti dice che non siano panzane?



- L’intera Parigi è testimone…



A quelle parole il re si adirò davvero:



- Calunnie! Non ci credo… se anche fosse non me ne importa!



- Maestà…



- Lasciatemi in pace!



- Maestà…



- Vattene! Voglio stare solo…



Superati lo sconcerto e il dolore, l’ansia per un problema che non si era posto e che non voleva sentirsi porre, Luigi XV si ritirò nelle sue stanze rifiutando di incontrare chicchessia, ma dopo qualche giorno capì con disperazione che a Jeanne Béçu mai avrebbe rinunciato, fosse pure uscita da un bordello. Quella donna era l’ emanazione giovane delle sue vecchie carni: un fiore da non recidere! Col tempo, però, maturò l’idea che le offese alla morale non dovevano essere sottovalutate perché alla lunga avrebbero minato il suo potere divino e, proprio per vivere quella relazione in libertà, stabili di far qualcosa per salvare l’onore e per zittire cortigiani e sudditi. 



Fu Jean Baptiste du Barry a trovargli la soluzione, un escamotage soddisfacente per il reciproco tornaconto. Nell’impossibilità di sposare Jeanne lui stesso, in cambio di una lauta ricompensa propose un matrimonio di facciata con il proprio fratello scapolo, e poiché la famiglia du Barry millantava titoli nobiliari Jeanne sarebbe divenuta contessa e le sorelle del du Barry sue dame di compagnie. Il ruotato trafficò con così pochi scrupoli e tanta abilità che quando ritornò a Levignac sulla Save, il paese natio della Guascogna disteso accanto a un corso d’acqua, lo fece dotato di un capitale invidiabile e della promozione a Conte dell’isola di Jourdain. 



L’Ange nell’autunno del 1768 si trasferì definitivamente a Versailles dove divenne la contessa du Barry. Luigi XV, mai largo di manica con le favorite precedenti, per assecondare i suoi desideri attinse alle casse dell’erario come fossero senza fondo: nei cinque anni che li videro insieme il sovrano le regalò vestiti, gioielli, residenze lussuose. Anche se Madame du Barry, istintiva, generosa e semplice, unica a trattare la servitù con cameratismo, all’inizio si sistemò volentieri col piccolo seguito nell’appartamento lasciato libero da Le Bel. Il povero valletto, infatti, poco tempo prima, era morto a causa di una crisi epatica. A Versailles si malignava che se ne fosse andato per il dispiacere di aver contribuito alla disfatta morale del suo signore, per non essere riuscito a impedirgli di esporsi al ridicolo della corte e alla perdita di stima dei sudditi. 



Erano infatti molti i denigratori dell’Ange. Il duca di Choiseul primo tra questi: aizzato dalla sorella, livida per aver visto sfumare la possibilità di diventare a sua volta favorita, le fece una tale guerra che gli costò l’esilio. Madame du Barry non si curava troppo delle maldicenze, grata del potere che aveva ricevuto partecipando alle nozze dei tre nipoti del re. Girava per il Trianon con abiti che fluttuavano sulle sue forme armoniose: una moda nuova e un modo per restituire al sovrano il giusto lustro. Via stecche e panier, via ogni forma di trucco, annodati con nonchalance i riccioli biondi, l’Ange era splendida!



La stella di madame du Barry declinò il giorno che Luigi XV scomparve. Dopo la sua morte, Luigi XVI con una lettera le ordinava il confino a molte miglia da Parigi, nel monastero di Pont aux Dames. Partì piangendo in una fredda alba primaverile e la sera si ritrovò nella cella lugubre di un edificio in rovina. Difficile prova, giorni interminabili e senza futuro, ma col tempo si fece benvolere dalle suore e in capo a un anno il principe di Ligne, uno dei più grandi signori dell’epoca, mosso a pietà, si decise a chiedere udienza a Maria Antonietta:



- Madame – disse dopo un profondo inchino – Iddio vi ricompenserà per la vostra indulgenza… permettete che Madame du Barry ritorni a essere libera.



- Signore come potete chiedermi questo?



- Madame, lassù la carità è riconosciuta…. – e guardò il cielo - non dubito che voi siate caritatevole…



Il labbro inferiore della regina fremette, sul volto un’ombra sprezzante e un lungo silenzio. Pensò alla rivale come a un idolo infranto. Deglutì.



- E va bene, purché abiti a non meno di dieci miglia da Parigi e da Versailles…



La nuova residenza di Madame du Barry fu il castello di Louveciennes, regalo del defunto re di Francia arredato da lei con stile personale. A soli trentatre anni, bellissima, di nuovo in possesso di ricchezze notevoli, non volle cercarsi un marito. Divenne seguace delle idee di Jean Jacques Rousseau scoprendo le gioie della natura, passeggiando nel parco all’inglese, godendosi i quadri, i mobili e gli oggetti preziosi, ricevendo la crema della società, partecipando alla vita di Louveciennes e facendo molta carità ai suoi paesani. Ma nel 1789 neanche quel ritiro di campagna si salvò dalla tempesta della rivoluzione. In quel periodo Madame du Barry con generosità e coraggio aiutò gli amici nascondendoli nella sua residenza e riallacciò i rapporti con la famiglia reale, superando l’ antica asprezza e prodigandosi per loro. Nel 1791, dopo un malaugurato furto di diamanti preziosissimi, dovette recarsi più volte a Londra per recuperarli. I suoi viaggi insospettirono le autorità francesi e al ritorno di uno di questi fu arrestata e imprigionata alla Conciergerie dove subì un processo. Testimoni d’accusa non pochi ingrati abitanti di Louveciennes e la servitù che pure aveva beneficiato della sua generosità. I suoi concittadini, gli amici e i conoscenti, le rivolgevano sguardi inquisitori, perversi e ottusi, mentre Fouquier-Tinville, implacabile accusa agli ordini del comitato di salute pubblica durante il Terrore, camminando avanti e indietro sottolineava la requisitoria con enfasi ieratica: - Colpendo una Messalina colpevole di cospirazione contro la patria, non soltanto vendicherete la repubblica delle sue offese!... ma sradicherete uno scandalo pubblico e affermerete il dominio della morale!...



Povera madame du Barry! Quando la condussero al patibolo pareva un vitello al mattatoio: urlò, pianse, stracciandosi le vesti implorò clemenza. La folla si commosse. Il boia, toccato nel profondo, si affrettò a concluderne il supplizio. Stessa sorte toccò al vecchio pigmalione: era un freddo giorno di gennaio del 1794 quando Jean Baptiste du Barry pose il capo sul ceppo e incrociando con lo sguardo il cielo livido si sentì trafiggere dall’inutilità della posta per cui aveva tanto combattuto.

 

 

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