Racconti di Yuri Bizzoni
La strada vuota
Ci era insopportabile quella strada perché oltre ad essere stretta e asfaltata (le strade asfaltate resistono negli anni nonostante qualsiasi intemperanza e non c’era speranza che una bufera la sfondasse) non c’era modo di lasciare su di essa un segno qualunque, né con il gesso, né con le ruote di una macchina.
Non ci abituavamo, né io né lui, a passarci ogni volta da soli, in quella stradina in mezzo al bosco così inquietante. Ci passavamo rapidamente, con passo veloce, e alla fine svoltavamo a sinistra ed arrivavamo alla nostra isolata casetta. Lì cenavamo, ci tranquillizzavamo; pensavamo a tutte le cose da fare, e scordavamo la strada. Ma quando per qualche motivo tornava il ricordo della strada lunga e frusciante col vento, quando le ombre serali prendevano il bosco e non c’era nessuno che la percorresse (ne eravamo sicuri), anche la cena diventava più silenziosa e tetra. Non dovevamo assolutamente passare per la strada dopo il tramonto, e finora non ci era mai successo. In quegli anni per il resto felici, lui accettò due fidanzamenti disimpegnati, e io mi “sposai informalmente” con Daniela. Ma non uscimmo mai da quella casa dopo il tramonto, o non ci rientrammo prima dell’alba, perché c’era la strada nel bosco da percorrere, il bosco intricato e rumoroso, di quei rumori inutili che mettono paura. Avremmo vissuto lì per sempre, con gli sconosciuti pipistrelli della sera che volavano; e certe volte, mentre osservavamo le stelle dalla nostra sicura terrazza, riuscivamo a non pensare alla strada.
Lui, Andrea, l’amico che condivideva la casa con me, sapeva raccontare barzellette all’infinito e anche diventare insopportabile. Altre volte stagnava per ore sul divano osservando la finestra con aria attonita. Sapevo che in quei momenti stava inventando qualche storia o sviluppando qualche racconto da mettere su carta e lo lasciavo tranquillo. Andrea era così, a volte sembrava che facesse cose inutili, che perdesse tempo, e invece stava lavorando, e poi scriveva tutto di getto, ogni tanto compilava anche dieci pagine a mano e poi le strappava tranquillamente; mi era terribilmente fastidioso vedere tutto quel lavoro e quel tempo cadere liscio in un cestino già pieno di carta scritta. Ma lui aveva l’ispirazione e sapeva produrre pezzi molto buoni; sapeva che lo avrei lasciato in pace quando pensava, che lo avrei lasciato scrivere quando ne aveva bisogno e andava bene così. In quelle ore di quiete notturna o pomeridiana io buttavo il tempo esercitandomi con la chitarra, componendo qualche canzone che per lo più chiudevo in un cassetto dove le lasciavo marcire all’infinito, o semplicemente ascoltando musica. Avevo un abbonamento e mi arrivava sempre un sacco di musica nuova, praticamente tutti i dischi nuovi di qualità che uscissero nel campo del rock leggero.
E poi avevamo gli inviti, le compere da fare, e la Strada da attraversare. Mi dicevo che andava tutto bene, mentre attraversavamo la strada, ma quando cominciava ad essere tardi avevo paura. Una volta persi un pallone con cui ogni tanto facevamo due tiri sul terrazzo, perché cadde giù nel bosco che era già notte (lo sentimmo rotolare e fermarsi sulla strada, e poi più niente). Per fortuna avevamo altri passatempi e il giorno dopo a mezzogiorno e mezza, sotto un sole che spaccava le pietre, andai a comprarne uno nuovo, perché l’altro era scomparso, come risucchiato dalla strada vuota e tranquilla. Avevamo molti soldi, io e Andrea, le imprese della mia famiglia e l'eredità della sua abbondavano e ci arricchivano. Ma anche lui ogni tanto si annoiava a far nulla o a tentare lavori a maglia, e allora scriveva racconti penosi, le dita come chiodi bronzei tamburellavano sul tavolo, la penna da una parte, il foglio dall’altra. Faceva tristezza in quello stato.
Dovrei ancora ricordare numero e posizione delle curve della strada. La curva a cui svoltavamo per la casa solitaria, la curva precedente, vuota e triste, la curva vicino all’albero morto, e poi altre tre piccole curve sempre nel bosco insonne prima di uscirne, e poter ascoltare qualcosa di diverso dai tetri rumori della foresta. La strada continuava anche dopo la svolta con cui si arrivava a casa, proseguiva come un aperto serpentone fino a un’altra curva che si ficcava nella parte più tetra e assurda del bosco e sembrava unirci con lo sguardo alle nostre paure più recondite. Inutile dire che quel tratto era sempre rimasto inesplorato per noi e che quando si usciva, anche solo per una passeggiata, si andava sempre nella direzione opposta, verso l’esterno. Dopo quel determinato numero di curve si usciva dal bosco, si attraversava un prato e lì la strada finiva, ovvero si confondeva con il mondo di fuori; al ritorno si faceva lo stesso passaggio al contrario, e arrivati alla svolta a sinistra si andava lì cercando di guardare ovunque tranne che davanti. Ma queste erano sensazioni generali: per lopiù pensavamo ad altro, ci occupavamo d’altro e la strada passava in secondo piano nei nostri pensieri; ci preoccupava solo percorrerla alle ore-limite prima del tramonto o subito dopo l’alba. A quelle ore il bosco aveva una cupezza tetra e sporca. Aveva un po’ di morte sotto le radici, qualcosa che faceva pensare subito all’omicidio, anzi al mistero, all’inesplicabile; anche se sapevamo di essere in tempo e che saremmo stati a casa o fuori dal bosco prima che calassero le ombre, faceva comunque impressione.
Posso dimenticare tutto, ma non posso dimenticare quando attaccammo il bosco intricato e maligno. Era sera; Andrea passò ridendo istericamente davanti a me, scendemmo le scale di casa e ci affacciammo alla strada, io con un fucile in mano. Ci bloccammo e stemmo lì davanti col fiato sospeso, poi vedemmo qualcosa muoversi a sinistra, dalla parte che andava al cuore del bosco. La figura si muoveva indistinta e cieca, come un mobile sospinto sulla strada o un grosso animale. Poi vedemmo un’altra cosa, poco dopo, sempre da quella parte del bosco: una sagoma nell’ombra, alta, immobile, minacciosa. Ci avvicinammo con le gambe che tremavano come fiori al vento, poi io aprii il fuoco; sparai a caso e senza guardare, poi lanciai un urlo di battaglia e ci scagliammo avanti.
Si allontanarono e scomparvero; arrivammo alla curva maledetta, ci fermammo di scatto, e quando potei parlare dissi ad Andrea:
- Non ci sono più. Hanno sgombrato questa parte.
Fece un gesto con la mano, prese un bastone e parlò con veloci parole allegre:
- Non ne sono sicuro…
Feci un segno di diniego:
- No, se ne sono andati; ne sono sicuro io.
- Allora - mormorò abbassando il bastone verso terra, - potremo passeggiare qui anche di notte.
Quella sera facemmo baldoria, svuotammo il frigo e brindammo con champagne sul bordo della strada. Ci eravamo dimenticati di tutte le nostre paure; fu bella quella sera.
I primi tempi fu grandioso perché potevamo fare molte cose che prima non facevamo. La nostra televisione, per esempio, aveva la possibilità di essere spenta per farci quattro passi in strada, a mezzanotte. Andrea vedeva tutto quello come una grandiosa vittoria, e scrisse alcuni racconti in cui traspariva la sua esultanza. Entrambi ci godevamo la luna tra gli alberi e la nuova aria estiva della sera che profumava i fiori notturni. Ogni tanto (e questo non accadeva ai vecchi tempi) aprivamo la porta di casa e guardavamo la strada di notte con un gran sorriso in faccia, prendendo grandi boccate d’aria.
- C’è la luna.
E avevamo qualcosa da guardare per minuti interi fino a commuoverci o a estasiarci.
In parte ne traemmo anche conseguenze spiacevoli. La sporcizia che aveva sempre miracolosamente risparmiato la strada (anche dopo le mattine più ventose di autunno, la strada era liscia limpida e pulita e le foglie morte non si vedevano da nessuna parte) cominciò a ricoprirla come una strada qualsiasi. Andrea perse l’abitudine di osservare la strada per ottenere l’ispirazione per alcuni dei suoi racconti più sentiti, come aveva fatto in passato. Ma non ci pensammo, non ci pensammo affatto: potevamo andare alle cene degli amici, e tornare tardi a casa nostra! Solo lui se ne rattristò un po’, e soleva alzarsi presto la mattina e guardare dalla finestra il cielo, un po’ malinconico. Ora gli stava stretto quel posto, che aveva perso ogni macabra magia, e doveva trovarsi altri spazi d’ispirazione.
Andrea aveva certe volte un volto triste e osservava più spesso la pagina bianca con la mano tamburellante sul tavolo. Entrambi però vedevamo il mondo come una nuova promessa e il bosco come un nuovo bellissimo amico, in cui passare tranquillamente. Mi ero talmente abituato a quei passaggi fugaci, al tramonto, per la strada, con l’odore di morte che si addensava, che ora, scomparsa ogni suggestione terrificante, certe volte quasi mi annoiavo a tornare a casa. Spesso Andrea se ne usciva:
- Prova a leggere questo racconto, se non ti dispiace. Ti sembra troppo legnoso? - , e passavamo un po’ di tempo a discuterne.
Poi avevamo tutti e due fame e andavamo a cucinare, o meglio Andrea cucinava e intanto io gli suonavo qualcuno dei miei pezzi (voleva che lo facessi mentre cucinava perché, diceva, non gli piaceva stare con le mani in mano; proprio lui, che passava ore immobile a guardare una parete!). Passavano tranquillamente i giorni, ma dopo un po’ non si può far a meno di pensare, e sentire che in fondo il bosco ha ancora qualcosa nel grembo. Si può morire per il mistero di un bosco.
(Dopo alcuni mesi, se Andrea contemplava il bosco di notte, o prima dell’alba, a me venivano i brividi e cercavo di rimettermi a dormire. Sempre tentavo di dimenticare quell’immagine triste e curva, da pittore o da gatto, la sua sagoma in contemplazione che mi stringeva la gola, non so perché. Andrea mi raccontava che le sue insonnie erano tranquille e immobili, passava le ore a osservare il bosco, a volte scendeva e guardava la strada. La sua “panchina” preferita era un sasso vicino a casa proprio sul bordo della strada, da cui si poteva vedere bene la curva che si spingeva nel cuore del bosco, la curva che non avevamo mai svoltato. Da lì vedeva gli alberi fremere al vento, frusciare, ricordava vecchi ricordi, e certe volte si addormentava pure.
(Da lì a volte usciva un racconto, da quei sogni fatti sul bordo della strada, se un rumore improvviso non lo svegliava di colpo. La notte aveva i colori del bosco per lui, il sussurrare ligneo dei rami, il gufio o il volo degli uccelli notturni da un albero all’altro. La strada, in quelle ore, aveva quasi il fascino di una volta…e se guardava la curva, aveva di nuovo l’accecante terrore. Allora si alzava, tremando, e cominciava a camminare verso la casa sempre più veloce e alla fine rientrava sbattendo la porta. Diceva che sentiva troppo silenzio, e che quei momenti di ritorno della paura erano sempre più forti. Sempre più raramente lasciavamo che lo sguardo corresse alla curve, di giorno e di notte, ma alla fine il mistero di quella strada, del seguito della strada divenne insopportabile. Dissi che forse era ora di fare qualcosa, la buttai lì, e la prima volta Andrea scosse la testa, tetro).
Ha uno strano sapore raccontare della seconda volta. Quella sera avevamo finito tutto il cibo disponibile, ci eravamo bardati per bene ed eravamo scesi giù, nell’aria umida di novembre. Ci avvicinammo fino alla curva, la svoltammo, e dall’altra parte vedemmo un’immagine, una sagoma cupa tra gli alberi o forse giù nella strada (la lontananza e l’oscurità rendevano tutto più indefinito). Andrea fu percorso da un tremito tagliente come una lama di coltello, e rimanemmo muti a guardare. Poi cominciammo a camminare guardando le sagome indistinte, cercando di capire, di sapere quant’erano vicine, e cosa stessero facendo, poi ci guardammo, e partimmo all’attacco. Lanciai un sasso che avevo raccolto e ci scagliammo in avanti, io e Andrea, urlando come ossessi, come pazzi, urlando a squarciagola e roteando sulle teste i bastoni che avevamo preso.
Si vedevano le sagome sempre più lontane ma sempre più veloci, che scappavano davanti a noi. Un’altra curva ci aprì la vista di un nuovo tratto di bosco, e continuammo a correre. Ora si udiva un suono rude, sordo, come un pulsare di un cuore; passammo altre due curve, prima di uscire dall’altra parte.
- Hanno sgombrato da tutte le parti! - disse Andrea. La felicità gli brillava dagli occhi; accendemmo le torce e le rivolgemmo di nuovo verso il bosco e la strada; i raggi luminosi si perdevano nel buio. Non si vedeva niente; non c’era più niente lì; lasciammo cadere sassi e bastoni e ripercorremmo la strada lentamente, con le torce salde in mano.
- Sono stanco morto - dissi mentre rientravamo.
- Si, anch’io.
Aprimmo la porta e ci ritrovammo nella vecchi casa. Mi buttai sul letto sorridente e mi dimenticai di tutto. Mi risvegliai dopo, la mattina presto.
Mi accorsi che, in qualche modo, nella corsa avevo perso l’orologio, probabilmente mi si era sfilato, era caduto sull’asfalto. Afferrai un bastone da passeggio e andammo a cercarlo, nella grande luce del mattino (ridemmo molto ed eravamo felici) ma non lo trovammo più. Quando tornammo nella casa, mi sentii felice, spalancai la porta e quella sera invitammo tutti gli amici a una grande festa da noi, la prima che facessimo. Due settimane dopo, facemmo i bagagli e partimmo, io per il matrimonio imminente, lui per un posto come direttore di un giornale letterario, e non rividi mai più né la strada né Andrea.
VENTO BASSO
La tramontana soffiava, soffiava, soffiava. All’infinito. Sporca e inutile. Eravamo andati lì quell’inverno, Maurizio io e gli altri, l’inverno dopo la guerra, l’inverno dopo la distruzione, dopo la fine di tutto, prima che la speranza ricominciasse a carezzare il cielo come una nuvola bianca, era gennaio quando eravamo venuti, eravamo affamati e isolati dal mondo, eravamo sopravvissuti chissà come, aveva nevicato, la terra era ghiacciata, il cielo era tetro, la luna era un pezzo di ghiaccio.
Mi sfregai le mani nelle mani e ci soffiai sopra, riscaldandomi le dita, il palmo, il dorso. Ora nuovi orizzonti si aprivano lentamente, e tutto diventava migliore: c’era speranza, forse?
Uscii. Dissi a Laura che mi sembrava che Leonardo stesse meglio. Non se ne era accorta. Disse che ci avrebbe fatto caso. Mi misi a passeggiare su e giù davanti alla porta della nostra baracca, pensando a chissà che. Il vento soffiava basso. In quei tempi, il cielo era vuoto di aerei e gli ostacoli artificiali al vento come palazzi e muraglie erano crollati tutti. Il sole era un cerchio abbagliante e lontano, che inondava il cielo. Mi guardavo intorno, ma non vedevo niente, niente di nuovo. Spesso me ne andavo sulla scogliera, da solo. Quel giorno avevo voglia di fare altro.
“Mi metto subito a cucinare” dissi.
Laura sembrava turbata. “Leonardo sta meglio… Ma sei sicuro? Quando te ne sei accorto?”. Mi guardò. “Cosa ne sai, poi, tu di medicina?”.
“Ti ho detto solo un’impressione” dissi. “Ogni tanto lo tengo d’occhio, e…avevo quest’impressione”.
“Meno male! Mi sarebbe dispiaciuto prendermi la malaria, dopo essere scampata alla guerra e a tutto il resto”.
“Be’, il rischio ancora c’è; è ancora malato, Laura”.
“Speriamo che hai visto giusto, anche senza essere un medico”.
“Ha detto che era la prima volta che si prendeva una brutta malattia. Che questa era la prima volta, quindi era più vulnerabile. Invece io, tu, Riccardo, Cristina e Giovanni, abbiamo già fatto qualche seria convalescenza”.
“Già. Era la prima brutta malattia per lui”.
Spensi la sigaretta.
Laura stava riordinando alcune cose della nostra baracca. Il suo volto esprimeva una quantità di pensieri diversi, per lo più tristi. “Cambiamo discorso, Robe’”.
“Forse Leonardo guarirà dalla malaria!” dissi per farle coraggio.
Si strinse nelle spalle, sorrise e guardò fuori.
“Sono sicuro che una volta guarito sarebbe utile a tutti noi” insistei.
“Vogliamo passeggiare un po’?”.
Dissi di sì. Mi sentivo spietato e fortemente energico, come se avessi potuto marciare per chilometri. Laura passeggiava con lo stesso impeto, dovevo sentirmi come lei.
“Ti piaccio, vero?” mi chiese.
Continuai a camminare silenzioso, sulla strada. Ero troppo rilassato in quel momento per preoccuparmi delle sue stupide domande. Ero forte ed asciutto come un cavallo da corsa.
“Roberto?”.
Raccolsi una scatoletta di tonno dal deposito poco oltre la baracca. La tolsi dagli altri barattoli che si rovesciarono a terra tintinnando e rumoreggiando. Era bello e giallo, intatto. Pensai di andare a vedere Leonardo, svegliarlo anche, se dormiva.
Intanto camminavamo, e io pensavo vagamente, pensavo al mondo che si ripopolava, dopo la distruzione, dopo le bombe assurde, dopo i maremoti, dopo tante piccole stupide faccende. Immaginavo di scrivere un libro di storia, piccolo, portatile, leggero, su quello che avevo sempre pensato fosse l’ultimo periodo dell’umanità. Scrivere a caratteri minuti, in memoria di tutti gli esseri umani, e intitolarlo magari: UNA TERRIBILE CATASTROFE.
Ci fermammo davanti a un albero e posai la scatoletta. Eravamo di nuovo in mezzo al niente, tra la sabbia e il mare. La sabbia era fredda, con una lucentezza quasi elettrica. La osservavo, come affascinato, e pensavo che era fredda. Il mare era blu profondo, triste, perfetto. Un mare che sembrava cielo.
Ancora adesso, volevo vivere. Le onde cristalline si infrangevano tristi sulla spiaggia asciutta. Mi mossi e mi avvicinai alla riva. Mancava ancora molto alla notte. Potevano essere le due e mezza. Vento lieve. Il vento soffiava, silenziosissimo. Nel cielo c’era sempre luce, nonostante tutto. Il nostro sole brillava con la luce delle due e mezza, e continuava a bruciare come sempre. Laura mi stava dietro di qualche passo, dritta e fiera.
Sudato per il sole, sperai con tutto il cuore nella gravidanza di Cristina. Cristina stava al nono mese della sua insperata gravidanza e pensavamo tutti a quel bambino. Aveva un pancione grosso e pallido e un bambino dentro. Dava odore di rinascita. Sputava, sputava, e Leonardo diceva che era un buon segno. Chiusi gli occhi, respirando leggermente.
“Ascolta il mare- dissi a Laura. – Vieni qui”.
“Ascolto il mare?”.
Andavo di rado al mare quando stavo nell’esercito e c’era la pace. Ora, anni dopo la guerra, mentre stavo con una tribù di quattro persone, ci andavo molto spesso. Avevo anche una mogliettina. Ero un uomo sui quarant’anni ben portato, scampato per un pelo alla morte. Pensavo, chiudendo gli occhi, che quel mare sembrava un pavimento infinito. Sostavo da solo, col cappello calcato in testa, sulla spiaggia di sabbia fine davanti a quel mare, le scogliere fredde e lisce di pietra a destra e a sinistra. A volte assaggiavo l’acqua del mare dagli spruzzi.
La distesa marina si allungava fino al limite dell’orizzonte, e noi stemmo per interi minuti ad ascoltare, dalla spiaggia gialla, le onde vitree spinte in qua che avevano accolto tanti di noi: folle di soldati con i loro fucili tetri che in un anno si poteva rendere rosso tutto l’Adriatico a forza di sangue, tenebrose bombe a mano, bombe da aerei, elmetti ricurvi, gli aerei stessi, perfettamente incastonati tra gli scogli abissali, missili di ferro (sembravano giocattoli! Non si può credere che abbiano ucciso tutta quella gente!), proiettili di tante battaglie e tante battaglie e tante altre, uniformi da militari e contorti militari in uniformi stesi in mezzi ai pesci di quelle ignote profondità oceaniche, stendardi (pronti per la vittoria), arti, teste di comandanti. Ma tutto nel profondo; noi avevamo il mare, davanti, con un piccolo legno che galleggiava nel continuo SSSSSSSSSHHHHHHH delle onde.
Ritornammo via dalla spiaggia, verso la nostra baracca con il deposito vicino. Le cose che vi erano dentro erano grandi quantità di cibo e strumenti raccapezzati un po’ ovunque. Ancora dovevamo trovare un materasso per il bambino di Cristina. E lui meritava una culla, sicuramente, perché era il primo che nasceva dalla guerra. Se fosse nato, certo! Tutti ci preoccupavamo segretamente di quel parto imminente.
“Andiamo, forza”. Mi sentivo come un computer, ripetevo sempre le stesse cose, pensavo sempre le stesse cose.
“Hai voglia di camminare ancora un po’?” mi chiese Laura. “Dai, camminiamo ancora”.
“Andiamo, Laura. Oggi non mi va”. Le cinsi le spalle con un braccio. Si spostò con un gesto sicuro. Sembrava bella e pulita in quella luce.
“Ti amo!” mi sussurrò Laura. I suoi occhi sembravano chiari tondi soli malinconici. Mi ricordavano le stelle di certe fotografie spaziali. Quand’ero adolescente, mia nonna mi aveva regalato alcuni libri di astronomia e c’erano delle foto, in copertina e tra le prime pagine, con delle piccole stelle di una nebulosa al centro, che uscivano come meraviglie da quella nuvola colorata.
Cristina arrivò e si mise a chiacchierare con Laura. Laura si allontanò con fare sospettoso come se dovessero tramare contro un generale, e parlarono e risero sulla spiaggia in lontananza. Cristina annuiva con la testa, e muoveva la sabbia coi piedi. Mi sentivo accaldato. Mi allontanai e, con la mano, mi feci aria. Loro cominciarono a camminare seguendo la riva, calpestando la sabbia e parlando a lungo.
Mi allontanai dalla spiaggia e andai a trovare Leonardo. C’era sempre da sperare che la malaria se ne andasse, portata da quel vento che spostava gli enormi greggi delle nuvole. La bianchezza delle nubi mi sembrò bellissima, lassù, più alta del cosmo. Era bello camminare sotto la brezza. Aprii la bocca e respirai a pieni polmoni. Speravo che fossimo le prime persone di un nuovo mondo…ma era possibile? La terra sarebbe stata abitabile finché ci fosse stato il sole a creare il vento; ma noi l’avremmo abitata?
Trovai Leonardo seduto nella spessa ombra davanti alla sua capanna, era un po’ più in forma di prima, un sorriso sulle labbra e la pelle rosa, bella come quella di un bambino. “Chissà se siamo i primi uomini di un nuovo mondo, Leonardo” dissi. “Tu che ne dici?”.
Non rispose. Mi sedetti accanto a lui, su un sasso. “Torno da una passeggiata con Laura”.
Leonardo era diventato serissimo. “Bravo. E non pensarci, a quella cosa di prima: è inutile”.
I miei pensieri erano confusi ma nell’insieme piacevoli. Fa bene pensare all’estate, in Febbraio, anche in un Febbraio caldo come quello. Sembra una speranza di vita.
Leonardo respirava forte, e io pensavo alle onde che andavano e venivano. Leonardo non aveva più la malaria. Questa certezza rendeva tutto più bello. Stavamo in pieno febbraio, e tra qualche mese sarebbero iniziati i tepori magnifici della primavera. Saremmo potuti uscire fuori di sera, fare i falò. Che bello. Vivi fino a Ferragosto, certo, almeno la metà di noi. Sulla spiaggia del mare, con una povera guarnigione di salsicce del deposito racimolata vicino a un falò pieno di ceneri della serata precedente e la potente luna estiva sospesa nel cielo grande buio e significativo.
Leonardo abbassò la testa, e mi guardò di sottecchi. “Per me è importante solo che mio figlio nasca”.
“Non capisco, non vuoi vivere?”.
“No, certo che non capisci. Non hai mai avuto un figlio. Non puoi pensare come un padre. Quando ne avrai uno anche tu, capirai come mi sento. Capirai cosa succede e cosa si pensa”.
“Si, hai ragione”. Già.
“Sai, mi sento molto bene” disse lui. “Fisicamente, anche, sai? Proprio io. Io che ormai non pensavo più alla vita, e sentivo solo la morte”.
“Male” proferii.
“Ah, senti!” disse annoiato. Poi chiuse gli occhi e si strofinò la guance rosee. Mi accorsi facilmente della freschezza rotonda del suo volto, ultimo segno della sua ritrovata salute. La malaria era andata via, chissà come.
“Sono sicuro che hai avuto la peggior malaria possibile. Laura si è presa malattie minori, come tutti noi. Ma ho un sospetto, da ignorante di medicina, che tu sia davvero guarito”. Lo guardai, serio serio. In quel momento pensai a un lontano futuro, la prima scuola del Mondo Nuovo che apriva i cancelli, e ora arrivavano e scendevano i ragazzini in fila indiana dai pulmini e salivano la scalinata verso la prima scuola del Mondo Nuovo.
“Forse…” disse Leonardo. “I pensieri sono lucidi, la pancia sta a posto, vado ‘al bagno’ con frequenza normale”.
“Davvero?” Ci pensai. “E mi dici forse?”.
“Ma si, ma si, mi è passata, non ce l’ho più, non ce l’ho più” esclamò all’improvviso.
“No”. Mi alzai, respirai a fondo e lo guardai aprire una scatoletta del vecchio tonno, facendo scattare il coperchio, e tirare fuori il pesce con una forchetta gelida di acciaio, come un impiegato in una breve pausa pranzo.
“Caterina!” disse.
Caterina e Laura erano ancora sulla spiaggia a parlare, probabilmente. Mi immaginavo di sentirla, coi piedi nella sabbia, immobili e a poca distanza, a guardarsi e parlare, come se stessero in una vacanza paradisiaca in qualche mare tropicale, a dirsi: Riposati mi raccomando, con questa panciona. Bah. Per me, partorire sarebbe stata un’esperienza terribile.
“Chissà tra quanto nasce”. Sentii la voce di Laura vicina, bassa, sorridente e tranquilla come una colomba quieta. Cristina avanzava con lei verso di noi, dritta in piedi, quasi torreggiante, con una gran decisione nei passi. Laura le passeggiava a fianco, parlando della bellezza dolce di avere un bambino. Leonardo abbassò gli occhi e pianse. Il rumore dei suoi singhiozzi mi arrivava chiaramente.
Laura continuava a ridere. Non si era accorta di noi due, non ci guardava. Cristina invece si allontanò e poggiò una mano sulle spalle di Leonardo. Lui le fece una carezza su una guancia e lei lo baciò sulla bocca.
“Vieni, Laura” dissi, “che ti spetta un bacio anche a te. Sentirai se non è la fine del mondo” e la allontanai dalla baracca di Leonardo,
“Amore. Tesoro” diceva lei tutta melensa. “Un gran gentiluomo di stile, sei. Baciami!” e così via.
“Vieni, Laura. Andiamo da quella parte. Laggiù è una meraviglia”.
Mi allontanai con Laura dalla loro baracca, e andammo a prendere un po’ di aria su una scogliera. “Sei davvero un grand’uomo” disse, “voglio fare un bambino con te”.
Rimasi un po’ in silenzio e in piedi. Cristina e Leonardo stavano laggiù a parlare. Io stavo in piedi sullo scoglio di una scogliera davanti al Grande Mare, e pensavo alle ere del Cosmo e alle piccole, giovani onde ondose che lavoravano da chissà quanto quegli scogli. Il blu del mare si estendeva in qua e in là per l’orizzonte come se si estendesse per il resto dell’universo.
Al ritorno Leonardo era serio e carezzava un gattino randagio che gli strusciava alla gamba. “Ho voglia di correre”.
“C’è tutta la spiaggia libera, qui davanti a noi”.
“Ho voglia di birra, e tu?” disse allora Leonardo.
Quella sera scendemmo tutti quanti e facemmo stendere sulla sabbia umida e morbida Cristina. Lei aveva le gambe aperte il più possibile. Leonardo le bagnava la fronte con un po’ d’acqua marina, l’acqua che bagnava lentamente la riva. Verso il tramonto, le si erano rotte all’improvviso le acque, e lei era corsa a dircelo agitatissima. Il cielo aveva un colore come di vino di Roma.
Abbracciai un attimo Laura che si era illuminata tutta n volto; eravamo assurdamente concordi ed euforici, quel giorno; credo che tutti sentissimo l’odore di rinascita che dava la gravidanza di Cristina al gruppo e al mondo.
Tutti speravamo davvero che ce la facesse, davvero, ma a un certo punto ebbi un attimo di sconforto anch’io. Mi sembrava sempre la stessa vecchia storia, mi sentivo indeciso e non volevo guardare; ero sicuro che sarebbe nato morto. Poi invece aiutai gli altri a far uscire quella piccola creatura: doveva uscire prima o poi, in quella nottata oscura, in cui non si vedeva a due metri di distanza. Cristina spinse con tutta la sua forza, noi stemmo intorno a guardare tra la sabbia umida e le vecchie scogliere che si bagnavano, come bambini incantanti a guardare una lanterna o un gioco di prestigio. Ovviamente cercavamo anche di aiutarla in tutti i modi, e Cristina si contorceva stesa lì, e gridava per suo figlio. Laura diceva parole un po’ sconnesse e tratteneva il fiato. Il fatto la spaventava un po’. Aveva il volto pallido come un fantasma e sembrava di guardare una maschera di pane.
Poi Cristina riuscì a farlo nascere, e noi esultammo come la più grande vittoria della nostra vita, perché era vivo. Lei chiuse gli occhi sul bambino e sulle stelle bianche, stesa lì, e rimase a sorridere, nella penombra vicino alle onde del grande mare, e pensai che se le avessi dato uno schiaffetto sulle guance rosse, certamente avrei scoperto che era morta, e rimasi impietrito a guardarla.
“Lo sapevo che nasceva” bisbigliò invece. Capii che era viva, allora, e respirai. Stava stesa sulla bassa spiaggia, tutti le eravamo intorno, perse coscienza e si addormentò senza sogni. Il ventre le si era sgonfiato come un palloncino senza più aria e il suo volto sembrava una piccola mela bianca. Ma era viva, e anche in buone condizioni, sembrava. La lasciammo ancora per qualche minuto sulla spiaggia davanti al mare e le demmo dell’acqua dolce. Leonardo continuava a chiamarla a gran voce, felice. Poi cominciò a guardare il bambino. Poi diede un momento a Laura il bambino, per tornare a Cristina. Laura si intenerì molto, così sono fatte le donne. Trovano tenere e dolci le cose più banali.
“Ora siamo in cinque ad abitare qui, non è vero?” disse.
“Si; un parto difficile, però” mormorai io.
Mi sedetti, pensieroso. Laura camminava lungo la spiaggia e cullava intanto il bambino che avevamo avvolto in una coperta. Cristina si stava ancora riprendendo.
Io rimasi sulla spiaggia, con Leonardo davanti e Cristina e il mare esausti proprio lì vicino, con la bocca aperta e gli occhi rivolti al cielo. Mi alzai dalla sabbia, barcollando per rimanere in pedi, me la spazzai via dalla giacca e mi incamminai verso la lontana Laura. Lei si girò verso di me e mi carezzò il petto con la mano libera, mentre il bambino piangeva.
Camminammo. Uno a fianco dell’altro, respirando piano come ragazzini stupiti e io le dissi di accelerare, pensando che forse aveva freddo. Le onde rumoreggiavano davanti ai miei occhi e mi lavavano i piedi nudi dalla sabbia. Vedevo nell’acqua una lievissima luminosità, ottusa e delicata: stava uscendo la luna. Il vento soffiava silenzioso, l’aria portava sabbia bianca da chissà quale spiaggia lontana oltre il mare. Al ritorno mi rimisi le scarpe di cuoio e mi fermai in piedi davanti a Leonardo e Cristina, trovando piacevole e carezzevole quel vento imperterrito. Avevo la pelle d’oca.
Baciai ancora Laura, e lei sorrise. “Sono stanco di camminare” dissi.
“Perché?”.
“Fermati un po’ anche tu” le dissi, e riportammo Cristina a casa, nel deposito; Leonardo accese la tv, perché con le sue inutili scariche elettriche tutte grigie la trovava rilassante e aiutava Cristina a dormire.
Alla televisione invece stavano passando alcune vecchie immagini di guerra, e ogni tanto la voce di uno speaker molto forte gridava che c’era del sangue. Io pensai qualcosa, poi mi girai verso Laura e gli altri che stavano vicino a me nel deposito, vidi le loro facce, e realizzai. Per la prima volta la televisione stava parlando. Rimasi immobile a sentire; rimanemmo lì in pedi, per attimi eterni, ed era talmente assurdo che mi scappava quasi da ridere.
“Forza!” gridò Leonardo all’improvviso. “Avanti! Forza, gente, alzate il volume, che aspettate?”.
“Parigi. Attaccano i nordamericani” disse con voce limpida lo speaker che parlava dalla televisione del deposito; adesso si vedeva la sua faccia; era un vecchio filmato di almeno cinque anni prima, in piena distruzione, quando anche i telegiornali cominciavano a diventare irregolari e a perdere la loro imperturbabile professionalità. “Siamo venuti a vedere cosa sta succedendo perché il mondo sappia, ci sono bombe al piombo mai viste, terribili, ma la contraerea ha già risposto. Abbiamo perso Guglielmo Renardi. Domani mattina andremo a nord con Ferdinando, e lo dico per la sua famiglia, Ferdinando Mazzetti è vivo e sta bene. Ha solo un po’ fame”. Laura crollò a quel punto, con il sorriso isterico piantato sulle labbra: cadde seduta per terra sul pavimento del deposito quasi al rallentatore, e cominciò a dire a ripetizione che era un miracolo.
Il vento soffiava forte, il vento di sempre, che increspava un po’ la superficie limpida del mare, che levigava la pietra più di quando potesse fare un umano e creava dune e insenature nella sabbia. E ora in quell’aria veniva dritto fino alla nostra tv, da chissà quale punto d’Europa, da chissà quanti giorni, un segnale di vita.
Il cielo sembrava un nero specchio di stelle, macchiato solo dal piatto della luna: rotondo solitario sasso spaziale, enorme montagna volante, satellite unico immobile oltre il basso vento e le nuvole. In tutto quello, l’oscurità della notte cancellava il bianco e il liscio delle nubi. Il pozzo per bere che avevamo, la cosa più preziosa che conoscevamo, stava a pochi passi da noi, nero e grosso, vicino al nostro deposito selvaggio, rintanato nella terra come un grasso collo di tartaruga.
Stavamo lì a sentire la tv, e io mi mossi per primo. Volevo assolutamente muovermi. Dalla fine della guerra, questa era la prima trasmissione televisiva che vedevo. Giornalisti, uomini che giravano a fare le riprese, vecchi cronisti e ragazzine magre e formose con le gambe lunghe e abbronzate dappertutto…pensavo fossero scomparsi tutti per sempre. Gli abitanti di quello schermo, le scene di guerra e i cannoni degli alleati, anche i cartoni vecchi e squallidi che si picchiavano e giocavano nei loro mondi di stinta fantasia, i seriosi programmi di propaganda, i colori della pubblicità di lontane automobili, voci di presentatrici: se ne era andato tutto da tanto, tanto tempo.
“Inizio a girare i canali!” dissi. Dalla voce, credo si intuisse che ero in preda a un’eccitazione quasi isterica.
“Sto per mettermi a ridere, scusate!” disse Leonardo.
“Che avresti da ridere?” chiese Laura, e si guardò intorno come intontita. I suoi occhi vuoti erano spenti nel buio della notte profonda che riempiva tutto tranne il chiarore della tv.
“Niente” disse lui. Il suo viso si stava contorcendo, sembrava stesse per morire, era probabilmente un attacco di risa isteriche, sembrava un povero pazzo così. Poi scoppiò a ridere come un clown dei cartoni animati.
“Ti odio” disse Laura. “Fammi capire cosa c’è da ridere. Ti odio, quando fai così”. Ma non c’era bisogno di dirle che era normale: già lo sapeva, Leonardo aveva la ridarella del nervosismo, solo che a lei non succedeva mai e così le risultava sempre una cosa incomprensibile.
Quello che era stato un canale tedesco di Berlino, mi sembra, si riceveva male, ma si vedeva tra una scarica e l’altra un tizio biondo che cercava di parlare. Ripensandoci, mi accorsi che era qualche mese che non accendevamo più l’apparecchio: ci stavamo abituando a dormire con i rumori e il buio della notte naturale; chissà da quant’era che trasmettevano di nuovo. Sugli altri canali tutto era vuoto, anche Rai o la BBC, poi venne fuori una donna (una donna viva!) che parlava da una poltrona. Era stanchissima, sembrava parlare da ore in qualche lingua straniera, ma riconobbi un paio di nomi come L’Avana, New York e Vietnam. Triste, però: all’improvviso mi veniva un’irresistibile impulso a piangere. Così girai anche quel canale per non sentire più quei nomi lontani, ma poi era tutto vuoto come prima. Gli altri stavano fermi a guardare; Leonardo e Cristina stavano seduti dietro di me e Laura era venuta vicino al grande apparecchio e la vedevo con la coda dell’occhio, davanti a me c’erano solo scariche elettriche, immobili e insensate come sempre. L’etere taceva di nuovo.
Ora, quando il bambino era finalmente nato e il colore della sua pelle rosa aveva fatto irruzione nelle nostre vita, restavamo tutti davanti a quell’apparecchio come scemi. Cristina guardava la televisione nel dormiveglia, col bambino in braccio, e quell’aggeggio intercontinentale di media dimensione ci trasmetteva di nuovo il canale con le vecchie immagini di guerra e gli aerei che schizzavano nel cielo. Il suono si sentiva bene come se fosse nuova, ma c’era poco da sentire. Leonardo sembrava quasi si sentisse male, aveva un volto pallido da situazione importante che inspirava rispetto. Lo schermo del televisore era per noi come la sfera di un mago, che ci rivelava affascinanti e incomprensibili scene dal mondo di fuori. Aveva ben tre canali da guardare senza comprendere. Tutte quelle più importanti erano vuote: ma canali di periferia, di importanza minore, magari ex-canali pornografici, avevano ripreso a trasmettere, diretti da chissà chi. Tornai al primo che avevamo visto; a un certo punto smisero i vecchi filmati e venne su un tizio allampanato, straniero, che parlava che sembrava stesse facendo il discorso a una nazione, sorrideva, poi vennero ancora immagini della vecchia guerra, poi il tizio che parlava e aveva in mano un vecchio libretto di poche pagine (non riuscivo a ricordare ma mi sembrava di riconoscere la faccia in copertina, aveva la barba) e sorrideva come uno scemo. Ma aveva occhi molto tristi. Continuò a parlare per tutta la notte dicendo ogni tanto in varie lingue Nous somme a Madrid, Siamo a Madrid, We are in Madrid e così via con voce limpida e fresca e io e Leonardo sorridemmo e ci guardammo con gli occhi lucidi.