Racconto di Antonio Martone
Petali di rosa
Era una bella giornata di primavera. Il
treno scorreva pigro in una bella campagna assolata e il rumore
delle rotaie sembrava non turbare lo scenario quasi immoto del
paesaggio.
Dormiva. Si svegliò soltanto quando i freni del treno e
l'altoparlante della stazione annunciarono l'arrivo nel paese.
Andò dritto a casa sua. Mentre andava, non vide nessun volto
familiare. Incontrò soprattutto macchine e motorini che
ronzavano sotto i balconi di quelle basse casette.
Era stanco per il viaggio ma non riuscì a rilassarsi mentre
faceva il bagno. Si vestì e scese al bar. Voleva rivedere il
locale della sua giovinezza. Voleva rivivere quelle serate di
fumo e di birra, di risa e di giochi.
Trovò molte cose cambiate. Per esempio, la gestione del Bar non
era più la stessa. Non c'era più quell'omino zoppicante e con
la bocca un po' deforme che tante volte, anni prima, gli aveva
versato la birra. I vecchi giochi erano stati quasi tutti
sostituiti da scatoloni enormi di videogames. Tutto era diventato
più essenziale ed organizzato
Cercò con lo sguardo
qualcuno di quegli uomini che, quando era giovane, trascorrevano
le serate a giocare a carte e a urlare nel loro stretto dialetto.
Non ne trovò alcuno. Soltanto dei ragazzi con la testa
semirasata inveivano contro un videogame mentre questo urlava
come una sirena di cui si è perso il controllo.
Si sedette nella saletta interna. Ordinò qualcosa e si accinse
ad aspettare che il giovane cameriere gli portasse l'ordinazione.
C'era un televisore acceso nella saletta. Un televisore che
nessuno guardava. I televisori sono ostinati ed ottimisti:
pensano sempre che, prima o poi, qualcuno verrà ad ammirarli e
così quel televisore non smetteva di rovesciare all'esterno
notizie di ogni genere. Quella sera però c'era un tema più
importante del solito: si parlava di una certa guerra. Si
annunciava che era scoppiata una guerra e si affermava con
convinzione che nessuno avrebbe potuto dubitarne anche se questa
volta non c'erano nemici visibili. "Ma sì ", pensò
lui, "se c'è uno stato di guerra i nemici non mancheranno.
Prima o poi verranno fuori".
Assopito nella riflessione, vide d'un tratto due sconosciuti di
mezz'età che scambiarsi uno sguardo furtivo. Nel locale
entrarono in seguito alcuni uomini. Ne riconobbe subito un paio.
Li aveva lasciati ragazzi, ecco che li ritrovava fin troppo
adulti. Avevano perso molti capelli e il loro ventre s'era
gonfiato a dismisura. Il viso sembrava schiacciato sotto una
maschera. Una maschera che con una sola espressione comprimeva e
deformava tutte le altre. Sembravano malati. Di una malattia
inguaribile! Fece finta di non riconoscerli. Ebbe voglia di
uscire dal locale.
Nella strada, ad un tratto, vide una ragazza che aveva
frequentato quand'era adolescente. Grandi occhi castani e denti
irregolari. Un enorme mucchio di capelli le adornava la testa
portata dritta sul lungo collo sottile. Lei aveva ancora addosso
quel maglione robusto; anche i disegni esagonali disposti sulle
maniche delle braccia erano sempre al loro posto. La raggiunse.
Anche lei lo riconobbe. Si avviarono verso la piazza del paese.
Non c'era posto al mondo che gli fosse più familiare di quella
piazza. Ci aveva trascorso le sere e le notti in quella piazza: lì
aveva imparato a fumare. Per quella piazza, per la prima volta,
aveva lasciato la famiglia.
Aveva in mano un mucchietto di petali di rosa. Mentre
passeggiavano, ne fece volare alcuni sulla testa della sua amica
che accolse il gesto con gioia. Chiese alla ragazza se intanto si
fosse fidanzata. Lei annuì e gli mostrò l'anello. Ma era un
anello un po' strano. Anzi, non era affatto un anello: alzò il
braccio e gli indicò un pezzo di metallo luccicante infilato
nella carne dell'avambraccio. Soltanto le due estremità
dell'oggetto erano visibili.
Arrivarono davanti alla Chiesa. Lei fu chiamata da un'amica e si
distanziò da lui. Accese una sigaretta e rimase fermo.
L'aspettava. Lei tornò sorridendo e lui le fece volare sulla
testa ancora una volta i petali di rosa che aveva nelle mani.
Quelli però si erano raggrumati a causa del sudore ed erano
diventati pietre. Erano diventati duri come piccoli sassi e lei
fu sconvolta da quel lancio. Il suo volto si contrasse in una
esclamazione di dolore. Sentì venire da lei alcune parole di
rabbia. Lo stava insultando. Così non si sorprese quando
s'accorse che lei non avrebbe continuato la passeggiata con lui.
Riprese da solo. Si gettò nella strada buia che lo avrebbe
portato via dalla piazza e fu investito dai fari e dal clacson di
una macchina che gli lasciò un piccolo senso di stordimento.
Si riprese subito. Tornò a casa sua e si distese sul letto.
Accese lo stereo e inserì un disco. Il Requiem di Mozart cominciò
ad effondersi nella stanza. Spense la luce e rimase soltanto con
piccola lampadina del comodino accesa. Chiuse gli occhi e pensò
che fuori faceva ancora freddo. Soprattutto in quel paese nelle
notti di primavera è ancora freddo. Sentì da lontano il fischio
di un treno. Chissà da dove veniva quel treno, chissà dove
andava
Pensò che non avrebbe avuto voglia di essere su
quel treno. Pensò che nemmeno aveva voglia di rimanere in paese.
Il fischio e il rumore delle rotaie si perse nella notte e si
confuse con le note del Requiem che gli salivano nel cuore e gli
inumidivano gli occhi. Sentiva il bisogno di un contatto
amorevole. Si addormentò come per affidarsi a qualcuno
(Ottobre 2001)