Racconti di Renzo Montagnoli






La canzone di Maria

di Renzo Montagnoli

Perché era andata a rovistare nella soffitta, fra ragnatele e vecchie cassapanche polverose?
Maria se lo andava chiedendo, mentre buttava da un lato vecchi stracci, conservati senza un motivo, senza una logica.
Forse era il tempo che non le mancava, le poche ore di sonno, la tediosità di una vita in solitario di una signora che aveva passato ormai la settantina. 
Quella mattina si era alzata assai presto, quando ancora non albeggiava, e dopo le abluzioni aveva preso il solito caffè, d’orzo però, come le aveva consigliato il medico a causa dei disturbi del suo cuore; più che un malanno era un fastidio, un’aritmia ricorrente che le metteva affanno.
Il giorno prima aveva lavorato a lungo, preparato la camera degli ospiti, armeggiato in cucina per preparare quei piatti che a sua figlia piacevano tanto e questo perché lei e il marito sarebbero arrivati con il nipotino all’indomani. Non la vedeva da un anno, perché Livia, così si chiamava, da quando si era sposata si era trasferita con il marito negli Stati Uniti, dove lui lavorava in un laboratorio di ricerche. I contatti, se pur telefonici, erano frequenti, ma rivederla era tutta un’altra cosa.
Nell’attesa, quindi, le era venuta l’idea di fare un salto in soffitta a fare un po’ d’ordine.
Mise da una parte una gran quantità di giornali ammuffiti, poi passò a un’altra cassapanca, l’aprì e sotto una patina di polvere vide una grossa agenda. Avvertì una forte palpitazione, la prese subito in mano e rimase a contemplarla: sul dorso era impresso l’anno 1938.
Aveva sempre avuto la passione di tenere un diario, ma aveva conservato solo quello e lei sapeva bene il perché. Con mani tremanti iniziò a sfogliarla fino a quando arrivò al 10 aprile; si aggiustò gli occhiali e si mise a leggere.

Oggi ho compiuto gli anni; c’è stata una grande festa in famiglia e il papà ha comprato una torta con 20 candeline. Mi sono emozionata e anche commossa: sono venute tutte le mie migliori amiche e c’era anche lui, Stefano. Mentre tagliavo la torta, ho visto che mi sorrideva. Quanto è bello, non è un uomo, ma un sogno; potrò mai aspirare un giorno a essere prescelta da lui per essere sua moglie? Io credo proprio di amarlo, ma lui… amerà me? Quel sorriso può significare tante cose, anche un semplice cenno di amicizia.
Abbiamo mangiato la torta, ma io non ho avuto occhi che per lui. Penso che se ne sia accorto, perché a un certo punto mi si è avvicinato e mi ha detto – Buona, veramente buona Maria; una gran bella torta, degna di una gran bella ragazza.
Credo di essere arrossita, ma quelle parole mi hanno inebriato, più del bicchierino di spumante che mi sono sforzata di bere.
Poi ho aperto i regali e mano a mano che mi passavano i pacchetti attendevo ansiosa quello di Stefano e quando è arrivato ho sciolto quasi tremando il nodo del pacco che piccolo non era, e infatti c’era dentro un disco.
L’ho voluto sentire subito ed è bellissimo, una canzone solo per me intitolata “Parlami d’amore, Mariù”; l’ho ascoltata come in sogno e lui era di fianco a me; a un certo punto mi ha cinto la vita e mi ha invitato a ballare. Non credo di aver mai danzato così male in vita mia come oggi; non sentivo la musica, intorno a me non c’era più nessuno, se non lui.
Dio mio, fa che questa felicità abbia a durare in eterno.

Una lacrima fece capolino fra gli occhi, ma l’asciugò subito e fece scorrere le pagine successive, in cui il diario di ogni giorno cominciava con “Il mio Stefano”, poi arrivò a un punto in cui il foglio era in parte strappato; si fermò un istante, mentre avvertiva la tristezza che l’assaliva; si fece quasi coraggio e cominciò a leggere.

20 settembre
Il mio Stefano non è più mio; oggi ci siamo lasciati, o forse è stato lui a lasciarmi, incapace di sopportare l’amore che gli riverso ogni giorno; sono sicura che non ha un’altra, ma è da un po’ di giorni che ho notato che si va raffreddando nei miei confronti e quella magica atmosfera è diventata un grigiore piatto; forse siamo troppo giovani con i nostri venti anni,
forse l’amore è così, un sogno che con il tempo si affievolisce; non sono più sicura di amarlo come prima, e forse è meglio che tutto finisca presto.

E notò che l’ultima riga era sbiadita, come se le lacrime avessero diluito l’inchiostro.
Ripose il diario, fece scorrere le mani lungo uno dei fianchi della cassapanca e trovò il disco. Diede una spolverata alla vecchia copertina e decise di riascoltarlo dopo tutti quegli anni.
Ne era passato tanto di tempo, da quel 20 settembre non aveva più rivisto Stefano, di lì a qualche mese aveva conosciuto Roberto, più vecchio di lei di una decina di anni, si erano piaciuti e già alla fine della primavera dell’anno successivo si erano sposati. Poi, la guerra, gli anni difficili del dopo, la nascita di Livia, la morte improvvisa di Roberto, un buon marito in un matrimonio più d’affetto che d’amore.
Scese le scale e arrivò in salotto, accese il giradischi e…

Le note si diffusero nella stanza e con esse le parole della canzone
“Parlami d’amore, Mariù
Tutta la mia vita sei tu”
Quella spina che le era rimasta in fondo al cuore le provocò una fitta, un tremendo senso di sconfitta, una lacerazione dell’animo che neppure lo sfogo delle lacrime riuscirono a placare.
“Gli occhi tuoi belli brillano
Fiamme di sogno scintillano”
Perché, perché era finito tutto, perché il sogno era cessato?
E chissà dove era ora Stefano?
“Dimmi che illusione non è
Dimmi che sei tutta per me”
Strinse forte i pugni, soffocò l’urlo che prepotente chiedeva di uscire dal suo petto.
“Qui sul tuo cuor non soffro più
Parlami d’amore Mariù…”
Le parve di impazzire, con i ricordi che si accavallavano alla realtà del presente, sogni, speranze mancate contro le concretezze del tempo trascorso.
Si sentì quasi mancare, ma non c’era altro da fare, ormai.
Si alzò, spense il grammofono, ne trasse il disco e lo spezzò in tante piccole parti, poi decise che anche il diario avrebbe fatto la stessa fine. 





Il mondo di Tonio

di Renzo Montagnoli


Quando nacque fu subito chiaro che c’era qualche cosa che non andava, con quella testa sproporzionata, gli zigomi sporgenti, il naso schiacciato, per non parlare delle orecchie, enormi, quasi da elefante, come ebbe più volte a ridire in paese l’ostetrica, con la raccomandazione che doveva essere considerato un segreto, e aggiungendo, per maggior chiarezza – E’ un mostro, qualche cosa di orrendo, peggio di una scimmia.
Per quanto ovvio, tutta la comunità nel giro di ventiquattro ore era già a conoscenza dell’avvenimento e nel passaparola ogni caratteristica somatica veniva ingrandita, tanto che più d’uno ebbe a raccomandare alle gestanti di evitare accuratamente di guardarlo, onde non rischiare di perdere il nascituro.
Il medico condotto, il vecchio ed esperto Dottor Chesi, dopo averlo esaminato, si passò le mani nei capelli e si rivolse agli attoniti genitori – Purtroppo, non è normale; è affetto da una grave sindrome, di cui al momento ignoro il nome; vedremo come si svilupperà.
Il piccolo fu chiamato Antonio, ma, per le tradizionali abitudini dei paesi di storpiare, il nome venne ben presto modificato in Tonio. 
Per tutto il tempo che fu in fasce l’occasione di vederlo da parte di estranei all’ambiente familiare fu del tutto casuale, preferendo i genitori non portarlo in carrozzina per le vie del paese; nondimeno in giro tutti sapevano di altre caratteristiche emerse, quali la costante irrequietezza e il fatto che non riuscisse a parlare, fatta eccezione per improvvisi e acuti strilli. Era la zia che passava le notizie e che aveva anche trovato il motivo di quella disgrazia; che fosse vero o inventato, infatti, andava ripetendo – E’ stato tutto al sesto mese, quando un pipistrello una notte d’estate è entrato nella camera da letto di mia sorella; ha preso uno spavento incredibile e sapete bene che certe cose, in quello stato, possono provocare conseguenze irreparabili.
Gli altri annuivano e qualcuno più maligno diffondeva la voce di una tara ereditaria, ricordando, velatamente, che il nonno era stato spesso soggetto a esaurimenti nervosi.
Chiacchiere su chiacchiere che si smorzarono alla svelta non appena Tonio, ormai in grado di reggersi sulle proprie gambe, in preda alla sua irrequietezza, cominciò a guadagnare la porta di casa, sfuggendo alla sorveglianza della mamma, per avventurarsi per le vie del paese, senza una meta, un deambulare forsennato che lo portava a percorrere non poca strada.
Fu aumentata la sorveglianza, ma mano a mano che il bimbo cresceva si dimostrò del tutto inutile, perché proprio non si riusciva a tenerlo chiuso in casa: si agitava, strillava, sbatteva perfino il testone contro il muro. E allora, considerato che all’epoca il traffico era del tutto sporadico, i genitori decisero di non ostacolarlo. Stava fuori quasi tutto il giorno, dall’alba al tramonto, a gironzolare su e giù, con un’andatura ciondolante, il corpo scosso tutto da un tremito come in preda alla febbre. Il medico condotto consigliò ai genitori di somministrargli dei calmanti, ma le dosi, sempre più massicce, non sortivano alcun effetto e già disperavano di trovare il medicinale più efficace quando accadde uno strano fatto.
Era un giorno di sagra, una di quelle feste semplici di paese: tutti si ritrovavano in piazza a giocare all’albero della cuccagna, a correre nei sacchi, a sentire la banda. E quando questa iniziò la sua esecuzione, Tonio, che girava su e giù, si fermò di colpo, si sedette sul selciato ad ascoltare assorto.
Il medico che, per caso era lì, ebbe poi a ricordare l’espressione estatica degli occhi del ragazzo – Era come rapito; il suo corpo non tremava più; ero davanti a lui, ma sembrava non vedermi; il suo sguardo seguiva il ritmo della musica.
Quando la banda terminò il suo repertorio, Tonio si mise a strillare e fu di nuovo percorso dal tremito; si alzò in piedi e fuggì via.
Da allora, ogni giorno, quando usciva di casa, correva subito alla piazza e cercava quella banda e quella musica che non c’erano più.
Su consiglio del medico, i genitori fecero un grosso acquisto per l’epoca: una radio.
La soluzione, tuttavia, non sortì effetto: la musica riprodotta dall’apparecchio non destava interesse a Tonio, quasi non l’udisse.
Non così l’anno successivo, alla nuova sagra: era un caldo giorno d’estate e Tonio era sulla piazza già da ore, ma solo a sera inoltrata arrivò la banda. E l’errabondo si trasformò nuovamente: il volto contratto si distese fin dalle prime note, gli occhi seguirono una visione solo sua, in una serenità che, appunto perché non gli era propria, si notava immediatamente.
Inutile dire che il beneficio durò solo per il tempo dell’esecuzione e subito dopo Tonio ridivenne quello di prima che tutti conoscevano.
Gli anni passarono, Tonio divenne un adulto, a suo modo, e, poiché i giapponesi avevano messo in commercio delle piccole radio portatili, i genitori decisero di regalarne una al loro disgraziato figliolo.
In quel minuscolo apparecchio Tonio ritrovò la sua banda; non mancava giorno che non uscisse di casa, portandoselo dietro, per precipitarsi in piazza, dove l’accendeva, se lo portava all’orecchio e stava ore e ore seduto ad ascoltare musiche di tutti i tipi, dalle canzonette ai brani d’opera. Si trasformava e pur nell’orrore di quel viso così scimmiesco si potevano notare gli occhi rilucere di vita e, qualche volta, riempirsi anche di lacrime.
Fu per lui un periodo felice, anche se non era proprio così per i negozianti della piazza, a cui di certo il volume elevato della radio non poteva non dar fastidio, ma che non dicevano nulla, perché tanta era la gioia di Tonio che ne venivano contagiati. Sì, come qualcuno andava dicendo in giro, era lo scemo del paese, ma grazie a quella musica non era più considerato una bestia, bensì un essere umano, sfortunato, diverso, ma che provava anche lui emozioni, e forse sentimenti.
Poi, come spesso capita con questi poveri disgraziati, la cui vita ha un corso più breve della media, un giorno di primavera Tonio non apparve sulla piazza. Tutti si chiesero subito il perché e temettero il peggio; sentirono i genitori e seppero così che non stava bene, non aveva forze, non riusciva ad alzarsi dal letto.
Passarono i mesi della primavera e la salute di Tonio andò gradualmente peggiorando; il figlio del Dottor Chesi, subentrato al padre come medico condotto, andava dicendo in giro, a chi glielo domandava, che probabilmente non sarebbe arrivato alla fine dell’estate.
Fu una stagione caldissima quell’anno, senza pioggia, con la gente che attendeva con impazienza il giorno della sagra, a metà agosto, quando in genere un bel temporale cambiava la stagione.
E quel giorno arrivò; la sera, sul selciato ribollente la gente aspettava la banda e guardava il cielo, dove nubi cariche d’acqua cominciavano a comparire.
Parlottavano tutti del più e del meno, quando lo videro: magro, barcollante, Tonio si trascinava per la strada. Quando fu sulla piazza, si buttò a terra, davanti ai componenti della banda, in prima fila.
Cominciò l’esecuzione, con il solito repertorio da anni, e Tonio oscillava il capo, seguendo il ritmo; arrivati all’ultimo brano, fecero appena in tempo a iniziarlo quando un tuono secco coprì il suono degli ottoni e immediatamente iniziò a piovere. In un attimo la piazza si svuotò, tutti sparirono, tutti meno uno: Tonio, che rimase seduto, immobile, sotto la pioggia scrosciante, come se nulla accadesse intorno a lui. 
Il suo vecchio padre provò a chiamarlo, a dirgli di mettersi al riparo, ma inutilmente; andò allora a prenderlo, gli mise una mano sulla testa e Tonio si rovesciò su un lato. Capì subito e, mentre le lacrime si mescolavano alla pioggia, lo strinse a sé, prese il suo volto fra le mani, gli accarezzò i capelli fradici, poi se lo caricò sulle spalle e si avviò verso casa. 


(Da “Storie di paese”) 

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