Racconti di Renzo Montagnoli
Il giorno dopo
di Renzo Montagnoli
La città quella sera era pressoché deserta; pioveva in quel precoce autunno che non vedeva il sole da diversi giorni. I rari passanti frettolosamente arrancavano allo scarso riparo delle grondaie con un unico desiderio: ritrovare il riparo e il caldo del focolare domestico.
Solo un’ombra s’aggirava lentamente, senza meta, protetta solo da una mantellina e da un elmetto, incurante degli scrosci, quasi non le importasse nulla di eventuali malanni, non improbabili con quell’umidità ed il freddo tignoso che penetravano fino alle ossa.
Mario alzò il bavero, poi si asciugò il viso e proseguì il suo cammino: era la sua ultima sera di libertà, il suo ultimo giorno di certezze, poi l’indomani sarebbe partito per quell’inferno di cui tutti parlavano e da cui pochi erano tornati: il Carso.
La guerra durava ormai da due anni e l’annuncio trionfante che sarebbe stata breve era stato rapidamente cancellato.
Vent’anni era l’età di Mario, un’età di gioie, di speranze, di innamoramenti; questo in altri tempi, non in quelli dove l’unica certezza era che la vita poteva essere tremendamente breve.
Era tutto il giorno che girovagava senza una meta, con la disperazione che può avere chi sa che la vita finirà da lì a poco.
Aveva ascoltato con angoscia i racconti dei soldati in licenza, in particolare del cugino che non riusciva a capacitarsi di essere ancora vivo. Frasi mozze, pronunciate con voce soffocata, accompagnate da un percettibile tremito del viso.
<< Fango, fango, o pietraie, ma ovunque morte; il tormento dell’attacco, il balzo fuori dalla trincea, chi cade intorno a te, le mitragliatrici fiammeggianti che ti puntano, l’immane esplosione dei proiettili delle bombarde.
Mario ascoltava e, mordendosi il labbro, pregava che non fosse vero, che fosse frutto di esagerazioni, ma poi si accorse sgomento che i racconti del cugino collimavano con quelli di altri reduci, e in tutti colpiva quel tremito del viso, quella sorta di espressione attonita, rassegnata.
- Vedi, arrivi ad un punto che ti rassegni; speri solo di non soffrire. I primi caduti ti lasciavano sgomento, poi sono diventati talmente tanti che….; non c’è posto per le amicizie, perché non potrebbero durare. E poi tutta quella sporcizia, il cibo scotto, i piedi permanentemente nel fango, i pidocchi che ti tormentano… A volte penso che l’inferno non potrà che essere meglio.>>
Quando aveva ricevuto la cartolina dal distretto l’aveva letta solo come chi può leggerla uno che è già preparato alla fine dei suoi giorni, e quel giorno di pioggia che volgeva alla notte l’aveva trascorso come fosse stato l’ultimo della sua vita, perché il giorno dopo sarebbe partito per un viaggio senza ritorno.
Aveva camminato a lungo senza una meta, fermandosi solo in ogni osteria a farsi un goccio, nella speranza che l’alcool ottenebrasse la sua mente.
<< Quando preparano un attacco non ce lo dicono, ma lo comprendiamo, perché si raddoppiano le dosi di acquavite. Ci vogliono ubriachi, senza volontà, perché se il cervello funziona chi mai si sognerebbe di correre incontro alla morte certa.>>
Che cos’era stata la sua vita? Aveva cominciato da giovane a fare il garzone nella macelleria sotto casa; ore e ore di lavoro mal pagate, rimbrotti continui, la miseria di una famiglia con tanti fratelli, e un solo sogno: fuggire via, ovunque, senza pensare, per ricominciare, crearsi una vita giorno dopo giorno, metter su famiglia; la famiglia, lui che non aveva mai baciato una donna! Che schifo di vita: nulla di bello da ricordare e allora tanto valeva la pena di terminare presto, anche se era ingiusto. E domani…
Isabella uscì dal lavoro e si affrettò verso casa, riparandosi il capo, per quanto possibile, con la borsetta.
Lavorava dieci ore al giorno in una modisteria, fatiche continue, assai poco retribuite, ma le permettevano di non pensare a quel marito caduto in uno dei primi mesi di guerra dopo solo un anno di matrimonio.
<<Quanto l’aveva amato! Era stato il suo primo uomo ed in lui aveva apprezzato la gentilezza, non disgiunta da una evidente forza interiore. Il loro era stato un rapporto forzatamente breve, ma intenso, ed il ricordo che ne serbava le faceva palpitare il cuore. Quand’era partito per il fronte era stato capace di trasmetterle la sua forza che aveva placato l’angoscia e la trepidazione che la pervadevano.
L’aveva accompagnato alla tradotta e nel momento del commiato - Amore mio, torna, torna. Tieni questo mio fazzoletto e se lo appoggerai sul tuo cuore sentirai battere anche il mio - gli disse fra le lacrime, che lui aveva asciugato con quel piccolo pezzo di tela che profumava di violetta. Era poi partito, ma il fazzoletto era rimasto fra le mani di lei. Altre lacrime lo avevano inzuppato quando era giunta più tardi la notizia della morte avvenuta in combattimento. Da allora l’aveva sempre tenuto nella borsetta, così da non separarsene mai.>>
Isabella girò l’angolo e venne urtata da uno sconosciuto, un militare.
- Mi scusi, signora.
- Va bene - e si chinò a raccogliere la borsetta caduta a terra.
Nel rialzarsi osservò lo sconosciuto: un giovane, forse della sua età, fradicio di pioggia e con uno sguardo triste.
- Non l’ho vista; è che sono frastornato; sa…, domani parto per il fronte. Se posso…, non so…, se vuole…; qui piove e fa freddo; le andrebbe di bere un caffè?
Non era una cortesia, era una supplica ed Isabella se ne accorse; non sapeva che fare, non le sembrava decoroso entrare in un’osteria con uno sconosciuto, ma anche lui sarebbe partito il giorno dopo e chissà quali tormenti l’affliggevano.
- Sì.
Lì vicino c’era un’osteria, un ambiente fumoso dove l’odore acre del vino si mescolava al puzzo dei toscani.
Entrarono e presero posto ad un tavolo traballante, uno di fronte all’altro.
Mario guardava la donna alla luce della lampada che pendeva dal soffitto: non poteva essere definita una bellezza, ma in lei c’era un innato senso di dolcezza che le dava splendore, e poi emanava una forza interiore che si poteva scorgere nel suo sguardo mite, ma fermo, quasi che gli eventi della vita fossero per lei nulla più che un ricordo dal quale trarre spunti per proseguire.
Un lungo silenzio li accomunava, ma gli occhi finirono per incontrarsi e quelli spenti e tristi di Mario si accesero di una nuova luce che non passò inosservata ad Isabella.
- Sono vedova; mio marito è caduto nei primi mesi di questa tremenda guerra; da allora è la prima volta che sono seduta ad un tavolo con un uomo.
- Capisco e anche per me è la prima volta che sono davanti ad una donna, una bella donna.
- Non esageri, sono una come tante.
- No, lei è diversa, lei è la cortesia, la dolcezza..., è tutto quanto di bello c’è al mondo; lei è la vita.
Isabella sorrise per i modi impacciati di Mario, ma quel ragazzo le faceva tanta tenerezza, con quella sua aria sperduta, quel timore per il domani che si poteva leggere nei suoi occhi. E poi, non sapeva il perché, ma sentiva per lui un’attrazione che non riusciva a giustificare.
Bevvero distrattamente il caffè, o meglio quel liquido nero e caldo che avrebbe dovuto essere caffè, ma non sentirono il gusto, perché i loro sensi erano tutti orientati in un’unica direzione.
Il pendolo dell’osteria battè le dieci. - Mi scusi, si è fatto tardi; devo andare - e si avviò verso la porta. Mario la rincorse; uscirono in strada entrambi e sotto la pioggia si guardarono ancora una volta. Fu solo un attimo, un brevissimo istante, ma le loro labbra si incontrarono.
- Ci sarò anch’io domani alla partenza - gli gridò Isabella e corse via.
Mario rimase fermo sotto la pioggia che gli sembrò diventata amica.
Il giorno dopo la Stazione Centrale era affollata per la partenza della tradotta. Mario continuava a guardarsi intorno, la cercava, doveva vederla. E come promesso, lei venne.
- Come ti chiami?”
- Mario Stuani.
- Io Isabella Damato; ti ho portato un dolcetto e nel pacchetto c’è anche il mio indirizzo: mi scriverai?
- Ma certo che ti scriverò, ogni giorno, sarà come parlare con te.
Questa volta il bacio fu più intenso, insieme con un abbraccio forte e fremente.
Il treno fischiò.
Mario si ritrasse. – Aspetta - e frugando nella borsetta la donna ne trasse il fazzoletto. - E’ mio, ma adesso è tuo.
- Lo porterò sempre con me, me lo metterò sul cuore. - Saltò come trasognato sul predellino.
Il treno si mosse e cominciò a prendere velocità. Mario continuò a guardarla fino a quando non scomparve dalla sua vista.
Si mise il fazzoletto sul cuore; si sentiva raggiante: era passato dalla rassegnazione al desiderio di vivere.
Quel ritaglio di tela lo accompagnò per i lunghi anni della guerra, si sgualcì, si intrise di fango, ma rimase sempre lì e alla vigilia del Natale del 1918 ritornò alla sua padrona.
Maschi
di Renzo Montagnoli
La vita nel paese scorreva negli anni prima della guerra regolata dalle norme ferree della consuetudine: lavoro tutto il giorno, dalla mattina alla sera, il sabato pomeriggio gli esercizi ginnici inventati da Starace, la domenica mattina la messa e nel pomeriggio invece la disperata ricerca di qualche cosa di nuovo, che non si trovava mai, per dare un significato a una settimana altrimenti opaca.
Annibale Chiocchetti era uscito da poco dal seminario, il cui ambiente ottuso non era certo di suo gradimento, e, dopo una giornata di duro lavoro nell’officina da fabbro del Dusi, si rifugiava all’osteria, avido di apprendere le novità, che poi tanto novità non erano: a parte qualche notizia del calcio l’argomento principe erano sempre le corna, di cui nessun maritato sembrava immune.
Se ne stava attento ad ascoltare, seduto in un angolo, fantasticando amplessi mirabolanti e accrescendo ancor di più il desiderio sessuale sempre presente e che lo obbligava spesso a un autarchico fai da te.
Il sabato sera l’osteria stranamente contava meno avventori perché una buona parte se ne andava in città al casino; il giorno dopo l’inevitabile argomento delle discussioni era ciò che si era visto, ciò che si era fatto, con annotazioni colorite, vicende al limite dell’inverosimile, ma che affascinavano inevitabilmente un giovane dal ragguardevole desiderio.
Fu così che un giorno, parlando con l’amico Cosimo Gasparini, si decise ad affrontare il problema.
- Cosimo, scusa la domanda: ma tu, sei mai andato a letto con una donna?
Quello lo guardò incerto fra il raccontare una menzogna e il dire la verità, poi si decise per quest’ultima.
- No, Annibale, non ho mai avuto l’occasione. In paese le ragazze non te la danno se non sentono parlare di matrimonio, ma io a legarmi prima del tempo non ci tengo. Ho ben altri progetti! Voglio andarmene per il mondo, a vedere se riesco a uscire da questa miseria che m’accompagna da quando sono nato. Certo che prima di partire vorrei togliermi la voglia.
- Che ne dici, se anche noi il sabato sera andiamo con gli altri in città?
- Ma non è la stessa cosa che fare all’amore con una ragazza, insomma quelle non te la danno gratis.
- La tariffa non è poi così cara; certo che se vogliamo andare in un casino di lusso non ci basterebbe la paga di una settimana, ma possiamo, anzi dobbiamo anche accontentarci, e poi che sia di lusso o che vada bene per dei poveracci il risultato è sempre lo stesso. E’ da un mese che risparmio; il vecchio Dusi non mi dà quasi niente per tutto il lavoro che gli faccio, ma mi ha promesso che, quando smette, mi lascia l’officina.
- Allora andiamo sabato?
- Andiamo sabato.
E il sabato arrivò. I due si aggregarono al solito gruppo e in treno andarono in città.
Il viaggio fu breve, ma a entrambi sembrò interminabile, con il cuore che batteva forte e il desiderio che stava per esplodere.
Per fortuna che, dalla stazione ferroviaria alla casa chiusa, il percorso era breve e, accodati ai già esperti, arrivarono alla meta in nemmeno cinque minuti.
La casa, sita in un vicolo poco illuminato, era uguale a tante altre, con le imposte rigorosamente chiuse e l’unica differenza dalle altre abitazioni era rappresentata dal continuo viavai di uomini: gente che entrava speranzosa ed altra che ne usciva con uno sguardo fra il trasognato e il colpevole. Era un campionario di varia umanità e si andava dal ragazzo inesperto al vecchio che credeva di trovare una seconda giovinezza, tutti accomunati da quel convincimento della superiorità del maschio che il regime aveva ulteriormente accresciuto.
Cosimo non aveva mai visto delle puttane, a differenza di Annibale che ricordava perfettamente un pomeriggio di qualche mese prima, allorché, in città per commissioni, era stato presente al passaggio di una carrozza scoperta su cui facevano bella mostra sei signorine della nuova quindicina, tutte truccate e ben vestite, prodighe di sorrisi invitanti.
Quando entrarono, tuttavia, la realtà si presentò ben diversa da quella della sfilata pubblicitaria.
Al piano terra, su alcuni divani, c’erano delle matrone un po’ avanti negli anni e in abiti succinti; dalla scala che portava al piano superiore scendeva un cliente, seguito da una donna che si andava rivestendo.
Annibale li osservò e restò colpito da una certa avvenenza di questa femmina che, fra uno scalino e l’altro, si infilava le mutandine di pizzo nero, di misura un po’ ridotta rispetto alle forme che avrebbe dovuto contenere. Questa se ne accorse e si diresse verso di lui, con il seno scoperto in bella mostra.
- Ciao, bel ragazzo. Sei nuovo? E’ la prima volta?
Annibale si sentì avvampare e, tenendo fissi gli occhi su quel balcone che si trovava a pochi centimetri da lui, assentì con il capo.
- Bravo, ma sai che sei un bel ragazzo! E sotto dovresti anche esser ben fornito...
Annibale era ormai tutto in incendio e cercò disperatamente Cosimo, ma già questi stava salendo le scale in compagnia di una magra dal volto butterato.
- Vuoi salire con me? Vai a pagare la tariffa e dopo troverai il Paradiso.
Corse a saldare il conto e si affrettò con lei su per le scale, dove c’era un ballatoio, lungo il quale si aprivano diverse camere.
Entrarono in una di queste, dall’arredamento essenziale limitato a un letto, a una sedia, a un catino e a una brocca d’acqua.
- Intanto che ti lavi sotto, mi fumo una sigaretta.
Ad Annibale le parole arrivarono ovattate da una nebbia di cui si sentiva avvolgere e, in stato di tranche, obbedì meccanicamente.
Quando ebbe finito l’abluzione si volse verso il letto, dove la donna, nuda completamente, l’attendeva a gambe spalancate, mostrando quello che in un tempo di certo non recente doveva essere un normale organo sessuale, ma che ora mostrava evidenti segni di usura.
Quasi incespicando, con passo incerto, si avvicinò al talamo, vi salì e si buttò a capofitto.
Gli venne del tutto naturale di baciarla, di cercare con la sua lingua quella di lei, ma la donna si ritrasse e lo fermò: - Questo no!
Quel rifiuto di un atto che gli sembrava così naturale lo bloccò e si accorse con orrore che gli era venuto meno il desiderio.
Vergognoso, imbarazzato si ritrasse e la donna si mise a ridere sguaiatamente.
- E’ la prima volta vero? L’ho capito subito che sei un pivello, un maschio tutto desiderio e basta.
Annibale cercò di rispondere, ma la voce gli sembrava strozzarsi in gola e allora si limitò ad annuire.
- Non preoccuparti, perché capita a molti. Vedrai che la prossima volta andrà meglio. Ma ora rivestiti alla svelta e scendiamo, perché il tempo è denaro.
A piano terra ritrovò il suo amico Cosimo e entrambi uscirono per andare a riprendere il treno.
Lungo la strada, al silenzio di Annibale faceva riscontro la straordinaria parlantina dell’altro, che non smetteva di magnificare la serata.
Quando chiese poi come era andata, la mancanza di risposta gli fece comprendere che qualche cosa non aveva funzionato.
- No, non dirmi; non posso credere che il mio amico Annibale abbia fatto cilecca.
- E invece sì, purtroppo. Sai che ti dico? Che non andrò mai più con una donna.
- Ma dai! Può capitare a tutti.
- Sì, però è capitato a me, e ora ho rabbia e vergogna insieme. Mi sembra di essere una testa di cazzo. Era lì nuda davanti a me, io quasi scoppiavo, poi di colpo mi sono afflosciato: la mente voleva, ma il corpo non l’assecondava. Che sia un finocchio?
- Scherzi, se la mente voleva non lo sei. Credimi, la prossima volta andrà senza dubbio meglio.
- Non ci sarà una prossima volta e non voglio più pagare una donna per averla.
E invece, da lì a nemmeno una ventina di giorni, Annibale conobbe a una festa sull’aia Tilde Sguazzi, una ragazza del paese che in passato non aveva nemmeno notato.
Fu un incontro del tutto casuale: lui, per niente ballerino, se ne stava seduto a guardare gli altri volteggiare, mentre lei, che non era proprio una Venere, attendeva, ormai disperando, l’invito di un cavaliere.
Erano fianco a fianco da almeno un’ora, ma non s’erano accorti l’uno dell’altro, quando alla ragazza andò di traverso la gassosa che stava bevendo. Si mise a tossire, strabuzzò gli occhi, le scesero due lacrimoni e, quando dopo esserseli asciugati, li riaprì vide il volto preoccupato di un giovanotto che la osservava.
- Niente di grave, spero? E’ passato, no?
- Sì, è passato.
Se c’è mai stato un colpo di fulmine in amore, questo lo fu proprio.
Non riusciva a parlare, la sua mente pareva annebbiata e l’unica cosa a cui pensasse era lui, bello da non credere, con quegli occhi azzurri, i capelli biondi, lo sguardo vivo e intelligente.
Anche Annibale era in stato confusionale e i pensieri gli scorrevano rapidi nella mente.
“Non è una bellezza, ma però è carina, con quegli occhi nocciola così innocenti; sì non ha proprio un gran naso, è un po’ a patata, ma ha una bocca stupenda, con due labbra invitanti e poi il resto non è proprio male; è un po’ magra, ma ha le gambe dritte, un bel culetto e credo due belle tettine.”
- Mi scusi signorina se non mi sono ancora presentato. Mi chiamo Annibale Chiocchetti e sono del paese.
- E io invece sono Tilde Sguazzi e pure io abito qua. Che strano che non ci siamo mai visti!
Il desiderio in Annibale cresceva a vista d’occhio e già avvertiva un certo movimento al basso ventre che stava mettendolo in imbarazzo.
Nemmeno a farlo apposta, la ragazza gli propose di ballare.
Non sapendo che fare, Annibale, mentre sentiva le mutande che gli diventavano troppo strette, buttò lì una scusa: - Magari, ma proprio questa mattina ho fatto un brutto movimento, insomma ho preso una storta e ora il piede destro mi duole tutto.
- E’ un peccato! Mi sarebbe tanto piaciuto ballare con te. – E buttò un’occhiata alla patta dei pantaloni che sembrava sul punto di esplodere.
- Sarà per un’altra volta, Annibale.
- Sì, lo prometto; già domenica c’è la festa del patrono a San Vitaliano e se vuoi ci andiamo insieme.
- Mi piacerebbe, ma non ho il modo di andarci, nemmeno una bicicletta, e farla piedi sono un po’ tanti quei cinque chilometri.
- Per quello non c’è problema; io ho la bicicletta e ti porto sulla canna. Va bene?
- Va bene.
E si lasciarono, con Annibale che procedeva lentamente fingendo il dolore al piede, il che però non gli impediva, ogni tre passi, di volgersi, incontrando sempre lo sguardo della ragazza.
Fu una settimana di fuoco, di trepidazione, tanto che il vecchio Dusi se ne accorse e, ridendo, gli disse: - Mi sembri un luccio in fregola.
- E che vuol dire?
- Dicesi di pesce innamorato, e del pesce hai pure gli occhi ora.
Non riusciva a star fermo e, quando non era al lavoro, andava su e giù dal paese, sperando di incontrarla, ma per quanto cambiasse gli itinerari di questo suo peregrinare di Tilde non vide nemmeno l’ombra.
Quando si coricava esausto nel letto, non gli riusciva di prendere sonno, anzi l’agitazione cresceva, soprattutto quando con moto, quasi involontario, la mano correva a sovrapporsi al pene, provocandogli delle ondate di calore quasi incontrollabili.
Nella veglia, fra le immagini che gli riaffioravano del volto e del corpo di Tilde, s’accavallano i pensieri, i programmi per quella prossima domenica che nelle sue intenzioni sarebbe dovuta diventare memorabile.
“La passo a prendere, la faccio sedere sulla canna. - e qui gli scappava un risolino – Quale canna? No, basta scherzare e pensiamo seriamente. Lungo la strada chiacchieriamo del più e del meno, anzi no, le chiedo che cosa fa, cerco di capire quanto le piaccio. E io? Glielo devo far capire quanto la desidero, quanto vorrei stare con lei? Beh, dipende da quanto riesco a capire di quel che prova per me. Arrivati alla festa, balliamo, ma poco, anche perché non sono capace. L’importante è che riesca a stringerla, a sentirmela addosso. Poi, alla prima occasione, le rubo un bacio, e poi lungo la strada un altro, un altro ancora, tanti baci. E poi le infilo una mano fra i seni, andiamo nel bosco, la spoglio, mi spoglio, e… Porca miseria, questo non ci voleva!” E ritrasse la mano tutta bagnata.
Poiché non poteva correre il rischio di arrivare al gran giorno con la virilità ai minimi termini si propose di non pensare alla ragazza negli ultimi tre giorni, ma la decisione se era facile a prendersi si mostrava difficile da mettere in pratica, e allora gli venne l’idea di andare a correre lungo l’argine un paio d’ore prima di coricarsi, così che la stanchezza gli avrebbe agevolato il sonno, scacciando tutti i suoi pensieri e le sue fantasticherie.
Il rimedio funzionò e Annibale arrivò alla domenica in condizioni che lui definì ottimali.
Nel pomeriggio, subito dopo il pranzo, passò a prendere la ragazza a casa sua; non entrò, anzi rimase fuori nella strada in bella vista e si sottopose all’attenta analisi di due vecchine che, come cariatidi, sedevano ai lati della porta. Parlottavano fra loro e ogni tanto lo guardavano, mettendolo in imbarazzo. Lui non sapeva che fare, volgeva gli occhi all’insù, fingeva di guardare il cielo, e ogni tanto abbassava lo sguardo verso la porta, sperando in cuor suo che l’attesa fosse breve. Trascorso all’incirca un quarto d’ora, sull’uscio apparve Tilde, che indossava un bel vestitino a fiori, forse un po’ strettino, ma che modellava meglio le esili forme.
- Ciao Annibale.
- Ciao Tilde.
- Andiamo?
- Andiamo.
La fece salire sulla canna e si avviò pedalando lentamente, nonostante si accorgesse che le due vecchine ora lo fissavano come se volessero fargli una radiografia.
Nonostante tutti i programmi e i propositi Annibale non riuscì a pronunciare una parola e anche la ragazza stava zitta, ma quando furono in procinto di arrivare alla meta, lui, quasi biascicando, e senza che l’avesse pensato, disse: - Che bel vestitino che hai Tilde e quanto sei bella.
- Anche tu hai una bella camicia e sei un bel ragazzo.
Più di ogni programma, più di ogni proposito, quelle due frasi scatenarono la felicità in Annibale che si mise a pedalare con maggior vigore, così che arrivarono quasi di volata all’aia dove si teneva il ballo.
Memore della virilità prorompente fece in modo che la ragazza potesse immaginare senza arrivare a un diretto contatto e così le danze furono poche e con i corpi prudentemente non avvicinati.
Venne così il tramonto e si avviarono verso casa.
Lungo il tragitto Annibale si sentì pervaso da un vago senso di tristezza, come se la giornata avesse registrato un’occasione sprecata. Ascoltava distrattamente quel che la Tilde gli diceva, ma quando, imbarazzata, gli disse - E’ stato bello oggi: mi piacerebbe fosse sempre così. - fermò la bicicletta e la strinse forte a sé. La donna si voltò e lui, tremante, non poté fare a meno di baciarla. Lei non si ritrasse, anzi lo assecondò e fu un lunghissimo bacio, che accelerò i battiti cardiaci di entrambi. Stranamente, Annibale avvertì che il desiderio sessuale sembrava venir meno per l’accrescere invece di una infinita sensazione di gioia.
Ripresero la strada del ritorno, silenziosi e felici e quando arrivarono al paese, un po’ prima di entrarvi, si scambiarono un altro bacio.
Il distacco non avvenne con timori; sempre senza parlarsi si lessero negli occhi la serenità di essersi incontrati, quella gioia così intima e forte che si può provare solo quando si ama.
La sera Cosimo trovò Annibale che passeggiava fischiettando e, dato che era a conoscenza dei progetti dell’amico gli chiese, se avesse fatto.
Questi lo guardò, tranquillo e, con gli occhi che sprizzavano lampi di gioia, rispose:
- E’ una brava ragazza e la voglio sposare; verrà il giorno anche per quello.
E infatti, da lì a cinque mesi, ci furono le nozze, anticipate perchè Tilde era già in attesa.
(Da “Storie di paese”)
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