Racconti di Gianluca Parravicini
Dolcissimo
omicidio
Se passi alle 8.30 sulle strisce pedonali di Corso Ventidue Marzo, vicino alla scuola elementare Mugello, incontrerai un vigile, divisa nera impeccabile, cappello d’ordinanza e fischietto in bocca, ha solo un piccolo tic, quello di spostare leggermente la bocca sul lato sinistro, sembra quasi che sorrida a scatti, del resto, i bimbi che attraversano la strada lo conoscono bene. Carlo 9 anni, accompagnato dalla mamma, appena lo vede comincia a imitarne il tic, Luisa 10 anni quando lo riconosce sposta tutta la mascella da una parte, malgrado i ripetuti rimproveri della nonna, che non sta bene prendere in giro una persona, anche il cocker fulvo della nonna, quando lo vede gli abbaia addosso, Valentina 7 anni, appena incrocia il suo sguardo gli spalanca la bocca mostrandogli la sua frastagliata “costellazione dentale”. Gabriele 10 anni, forse il più insolente, una mattina lo ha salutato così, ciao signor tic, come stai signor tic, con il papà che esterrefatto dall’imbarazzo se è mestamente scusato per quel maldestro saluto, rimproverandolo e strattonandolo poi verso il marciapiede. Marta 8 anni, quasi 9, oramai erano diverse settimane che lo osservava, un giorno aveva anche notato una persona indossare quella stessa divisa entrare nel portone di fronte a quello di casa sua, ma le era sempre mancato il coraggio di rivolgergli la parola, e poi quel tic le metteva un po’ paura, le ricordava un sogghigno di qualche storia dell’orrore di cui era ghiotta. Non le era molto chiaro chi fosse esattamente quella persona vestita a quel modo che aiutava la gente ad attraversare la strada, sapeva che si trattava di un vigile, sapeva anche che i vigili dirigono il traffico, ma un vigile fermo in prossimità delle strisce pedonali, con quello strano tic proprio non lo reggeva. Così una mattina, cercando di farsi forza stringendo intensamente la mano della mamma, ha sentito che doveva passare all’azione, era il caso di saperne di più di quell’uomo che non la convinceva e che tutti prendevano in giro. A colazione aveva mangiato più del solito, aveva passato alcune ore nel corso della notte ad immaginare chi fosse realmente costui, un rapitore di bambini, un assassino, una spia, un agente segreto, un extraterrestre travestito da vigile, nei pochi isolati che separavano casa sua da scuola non aveva aperto bocca, la mamma avvocato era già alle prese con il telefonino, e lei, avvolta nella sciarpa per il gran freddo, avvinghiata alla mano della mamma sudava freddo. Girato l’angolo con lo sguardo aveva subito cercato la sagoma di quell’uomo in divisa, lui era lì, come al solito, per nulla intirizzito dal freddo, appena qualcuno si accingeva a voler attraversare la strada alzava lentamente la mano destra, sempre con quell’espressione fiera e orgogliosa, disturbato solo da quel piccolo tic, fermava le macchine che stavano sopraggiungendo, così da consentire il deflusso dei pedoni da un marciapiede all’altro, per poi elegantemente sottrarsi così da far riprendere la circolazione delle auto. Marta ancora non si sentiva pronta ad affrontare quell’uomo, ma ormai erano tanti i giorni in cui rimandava, del resto, se lo era ripromesso la notte precedente andando a dormire, qualcuno deve avere il coraggio di provarci, ho 8 anni, quasi 9 e quel qualcuno sento che sono io, si era ripetuta più volte. Oramai gli erano arrivate vicino, la mamma aveva da poco terminato la telefonata con lo studio che le aveva reso l’umore pessimo, Marta fremeva, aspettava il momento più opportuno, sul lato opposto della strada si era aggiunta un’altra persona che attendeva di attraversare, in quel preciso istante il vigile ha riversato verso Marta e la mamma un rapido sguardo d’intesa, come per avvisarle che stava per consentir loro di attraversare la strada è proprio in quell’istante che parte dalla tenue vocina di Marta la domanda, chi sei? Il vigile, malgrado il caos del traffico, distingue la labile vocina della bambina, si volta dedicandole attenzione, per poi rigettarle la domanda non prima di averla inflazionata con il solito tic, e tu chi sei? Marta non sembra sorpresa, anzi è più rinfrancata così si fa più incalzante, sei un assassino tu?
Nel frattempo il vigile si era predisposto per farle attraversare la strada, ma in quel preciso istante si volta giusto il tempo per fare con la testa un gesto di assenso, accompagnandolo poi da un chiaro movimento delle labbra che traducevano il sì, quindi si ripropone il solito tic con la bocca. Marta con una voce stentorea risponde di getto, l’avevo capito, per poi riprendere il passo verso la scuola, con la mamma estraniata da tutta quella situazione, che si raccomanda solo di allungare il passo. Finalmente si era rivelato, Marta si sentiva orgogliosa di quella scoperta, per la prima volta in vita sua aveva sotto il naso un assassino, durante tutta la mattina in classe non aveva pensato ad altro e non si era neanche confidata con la sua compagna di banco Valentina con la quale era abituata a dirsi tutto, ma questa volta era troppo grossa la questione, sulla pagina giornaliera del diario aveva scritto in rosso, “grande scoperta”. Durante l’intervallo si era chiusa per diversi minuti in bagno, non per una reale necessità, ma perché aveva bisogno di pensare, di riflettere, era una questione che non poteva rimanere irrisolta doveva fare qualcosa, uscita dal bagno si era anche presa il rimprovero di una bidella perché nella concitazione si era dimenticata di tirare l’acqua. Alla fine delle lezioni alle 13 i bambini escono chiassosi dalle rispettive aule, si dispongono in fila lungo i corridoi per poi raggiungere l’uscita, dove ad attenderli ci sono le mamme e le nonne, pronte a gravarli del peso della cartella, le più affettuose porgono anche un delicato bacio, come per voler rimarcare il proprio territorio di competenza. Ad attendere Marta c’è Anna, una baby sitter filippina, come da programma le sottrae la cartela, dopo averla amorevolmente salutata con una carezza sulla testa, Marta non è di molte parole, anzi un po’ si vergogna di quella baby-sitter straniera, cerca subito di prendere la via verso casa, rispondendo distrattamente con un cenno della mano al saluto di una compagna. A gestire il passaggio dei pedoni sulle strisce pedonali a quest’ora non c’è nessun vigile, come se della sicurezza dei bambini ci si dovesse occupare fino alle 8.30 e non oltre, una delle tante corrive stranezze della città. Nella mente di Marta si è insediata un’altra marea di inquietudini, chiusa nella sua cameretta in un pomeriggio con il cielo che proprio grigio non vuole restare malgrado il freddo, seduta al tavolo di frassino, la cartella ai piedi e un quaderno aperto in una pagina qualunque giusto per dare alla baby-sitter la parvenza di fare i compiti, si lascia coccolare da tutte quelle sensazioni dense di paure sfilacciate e puntute emozioni che la presunzione di avere scoperto un assassino le provocano. Quel vigile con quello strano tic, un assassino, ma chi avrà ucciso, magari il figlio, oppure il fatto che lavora vicino ad una scuola è perché cerca una nuova vittima, Marta si ricorda di avere letto da qualche parte che queste figure si chiamano serial killer. Non c’è un momento da perdere, bisogna preparare un piano, quello è un uomo grande, grosso e pericoloso, Marta si rende subito conto che deve usare l’astuzia, finalmente può mettere in atto tutto quello che ha letto nei libri, in tutte quelle strane storie che legge di nascosto dai libri di papà. La prima cosa è quella di non farsi scoprire, se il tizio si rende conto che qualcuno sospetta di lui tutto è perduto, quindi bisogna farselo amico, solo in questo modo ha l’opportunità di avvicinarlo senza destare in lui il benché minimo sospetto, del resto Marta è una bella bambina di 8 anni, quasi 9, sa come rendersi simpatica. Il giorno seguente, poco prima di raggiungere le strisce pedonali si prepara davanti allo specchio, distribuisce una decina di sorrisi, giusto per scegliere quello più efficace, indossa anche una giacca a vento rossa perché il rosso le dona, lo ha saputo dalla nonna e di lei si fida ciecamente, la mamma al solito è presa al telefonino, come sempre è infuriata, sembra che allo studio siano stati persi dei documenti fondamentali per una causa che deve discutere in giornata. Marta con il vociare della mamma ha modo di prepararsi ancora meglio, sussurra continuamente ciao signor vigile, come stai? Girato l’angolo c’è sempre un destino che ci attende, quello di Marta indossa una divisa nera e un berretto, in quelle decine di metri che la separano da lui cerca di mantenersi calma, ho un piano e devo rispettarlo, non devo avere paura altrimenti è la fine, lui ha con se anche una pistola io la mamma che anche quando è arrabbiata non mette paura a nessuno, quindi sono sconfitta in partenza. Ferma in prossimità delle strisce Marta si predispone subito per intercettare il suo sguardo, ma questa volta lui no si volta, è preso dal traffico che sembra più intenso del solito, non le resta che passare all’azione chiamandolo, ciao signor vigile cercando di impersonare al meglio la brava bambina. Lui si volta come se fosse sorpreso, ciao risponde, ciao cara, sulla seconda sillaba di cara gli scappa il solito tic, quindi consente loro di attraversare, Marta s’incolla un sorriso estasiato, come se l’avesse salutata il tenente Colombo, il suo telefilm preferito, riesce al mantenerlo per tutto il tratto di attraversamento della strada, per essere ancora più convincente saluta con la mano. Sono stata brava, perfetta, si ripete di seguito, non ho avuto la minima paura, gli sono piaciuta, mi ha sorriso e mi ha chiamato cara, quell’uomo non deve aver mai chiamato cara nessuno, non mi resta che passare alla seconda fase del piano. Le ore della mattina incedono noiose, le prime due di geometria con l’area del triangolo da calcolare, poi la geografia, stanno studiando il Piemonte, Marta si distrae guardando le fotografie delle pagine successive sulla Valle d’Aosta, poi l’ora di religione con Don Carlo, il quale parla dell’importanza del sacramento della Comunione e infine l’ultima ora di grammatica, Marta scrive a matita il verbo uccidere, io uccido, tu uccidi, si ferma, lo fissa per qualche istante e poi come rapita da un’idea cancella tutto. Fuori c’è Anna che riesce ad essere ancora più brava di lei con i sorrisi, Marta pensa che ad Anna i sorrisi riescono così bene perché si allena tanto, sa fare solo quello, non ha mai accettato l’idea di avere una baby-sitter, ne cambia una all’anno, non le piace vedere sempre la stessa faccia per casa e poi la diverte vedere la mamma tribolare per cercarne una nuova. La seconda parte del piano comporta molta determinazione e sangue freddo, Marta ha deciso di eliminarlo quel vigile, lo ha deciso a scuola durante l’ora di grammatica, a scuola hanno appena imparato a trasformare i verbi al presente e la prima persona singolare del verbo uccidere è io uccido. Si sente posseduta da questo verbo, il piano è molto semplice, è sempre stata abituata a razionalizzare le cose a scuola ma anche nei libri di Agatha Christie e Rex Stout, nei telefilm del tenente Colombo, lui è grande e grosso io sono piccola e furba, quello lo avveleno, è semplice. Mi conosce, gli sono simpatica, di me si fida, sono una bambina di otto anni, quasi nove, che gli offre una caramella, non vorrà deludermi non accettandola. Marta sa che la mamma è ghiotta di caramelle alla fragola, nel salotto c’è un cofanetto pieno, si tratta solo di prenderne una, immergerla per un po’ in una bacinella con dentro ammoniaca, quindi riavvolgerla nella carta e il gioco è fatto. Facile a dirsi, la mamma tiene tutti i prodotti per la casa nell’armadietto sul balcone e la chiave è nascosta, sicuramente Anna conosce dove è stata messa, la difficoltà consiste nel farsela dare. Marta ha sempre fatto della furbizia una dote, si inventa un compito per casa che consiste in una ricerca sui prodotti domestici destinati all’igiene, si limita a chiedere ad Anna di poter vedere le etichette dei prodotti in questione, così, con la semplicità con la quale forse Dio ha creato il mondo, scopre il nascondiglio della chiave dentro ad una scatola nel vano sotto il lavandino, il resto è un gioco da ragazzi, anzi da bambini. Infila i guanti da cucina per evitare il contatto con l’ammoniaca, immerge la caramella per qualche minuto nel liquido, poi l’asciuga, aggiunge quel po’ di zucchero così da coprire l’odore, quindi la riavvolge nella carta. Le viene subito di ripetere il tic di quell’uomo, lo accompagna in seguito con un sorriso controllato, proprio quello che ha visto fare a un’attrice in una puntata del tenente Colombo, la sua mente è oramai sovrastata dal protagonismo di tutta questa storia, Marta sa che ora deve recitare solo la parte della brava bambina, butta le braccia al collo quando rientra la mamma dall’ufficio e poi lo stesso trasporto lo riversa sul padre che rientra dal lavoro poco dopo. Nessuno in casa sembra accorgersi di nulla, Marta racconta la giornata di scuola con un’enfasi inusuale, inventa di aver risposto bene ad una domanda della maestra, conquistandosi un bacio del papà sulla fronte, mentre la mamma apre lo sportello del microonde da dove riemerge una porzione fumante di lasagne alle verdure. Di sera le famiglie ritrovano le loro storie, i televisori in sottofondo trasportano altre storie, le formiche, le mosche, i ladri, si danno da fare con quello che trovano in giro, come tutte le sere qualcuno è felice, qualcuno un po’ meno. Sotto le coperte tutti i bambini sono uguali, Marta non si fa raccontare storie dalla mamma, ha i suoi libri sul comodino, il suo peluche sulla poltrona a fianco, la luce tenue della lampada, ma questa sera non ha voglia di leggere, vuole mantenersi lucida, la lettura la allontana troppo da se stessa, la caramella al gusto di ammoniaca è nel cassetto della scrivania, il buio della notte sta per sopraggiungere anche nella stanza, con i pensieri che si tormentano tra loro prima di essere assorbiti dal sonno. Alla mattina il risveglio è sempre la mamma a portarlo in giro, prima con i pesanti passi verso il bagno, poi con il rumore dello sciacquone del bagno, infine, in cucina la tovaglia sul tavolo che attutisce i rumori delle scodelle e dei cucchiai, e poi quell’urlo inconfondibile, è pronto! Marta si era svegliata con lo sciacquone del bagno, che spesso è la sua sveglia, la mente subito si riconduce al crimine che sta per organizzare, gli occhi fissi sul soffitto, rivede la scena di lei che porge la caramella a quell’uomo, nel preciso istante entra la mamma, che con l’insistenza che solitamente la contraddistingue, la prega di alzarsi, una mamma tra le 7.30 e le 8 di mattina si può anche odiare, ha sempre pensato Marta. Apre subito il cassetto per assicurarsi che la caramella è ancora lì, poi si trascina in cucina con la solita aria addormentata, come sempre si estrania dalle chiacchiere di mamma e papà, il suo mondo non ha mai voluto rivelarlo a nessuno, riversa il cucchiaio bolso di marmellata sulla fetta di pane appena sfornato, con poderosi morsi cerca di saziare quell’inquietudine che è cresciuta dentro, avrebbe voglia di mangiare altre fette, ma preferisce non fare nulla di diverso rispetto al solito, tre fette e non di più, il caffélatte e il solito bicchiere di spremuta d’arancia a chiudere. Ha già deciso cosa indossare dalla sera prima, quindi apre l’armadio con le idee già molto chiare, pantaloni blu, camicetta azzurra, golf rosso e poi la solita giacca a vento rossa, tutto semplice per ora, anche se sta quasi per dimenticarsi la caramella nel cassetto. Marta ha quasi fretta, premura di sbrigare la faccenda, ha la necessità di liberarsi di tutti questi pensieri, non perché li trova brutti, li giudica noiosi, ha solo voglia di tornare a leggere le sue storie e basta, il suo sogno segreto che però non ha mai rivelato a nessuno è quello di un giorno poterle scrivere le sue storie. Per una volta la mamma è di buon umore, niente telefonate, riesce anche a trovare il tempo di chiedere a Marta se ha fatto i compiti, figuriamoci, Marta è sempre stata diligentissima, per lei non sono mai stati un problema i compiti, così ricambia chiedendo alla mamma se la mattina deve andare in tribunale, ma sembra di no, passerà tutta la giornata in studio, giornata relax. Mamma e figlia stanno per essere protagoniste di un assassinio, eppure a guardarle camminare per strada, coinvolte in una serena armonia non si direbbe, tutto merito di Marta che conosce la mamma come le sue tasche, svoltato l’angolo il volto di Marta si contrae per un attimo alla vista dell’uomo, le fa quasi pena vederlo coinvolto a dirigere il traffico, senza che lui sappia quello che sta per succedergli. Si infila la mano in tasca per sincerarsi che la caramella sia ancora lì, la afferra tra le dita quasi per ottenere una maggiore convinzione di quello che sta per fare, ma non c’è più tempo, oramai sono arrivate all’altezza delle strisce pedonali. Marta lo fissa allargandosi in un tenero sorriso, ciao signor vigile, afferra subito la situazione conquistandosi l’attenzione dell’uomo che si prodiga in un sorriso compiaciuto. Tieni una caramella, aggiunge, poco prima che la mamma, che la tiene per mano, la invita ad attraversare, e in quel preciso momento ecco il passaggio della caramella, che dalla mano di Marta passa teneramente a quella dell’uomo, grazie piccola, riesce a dire. Ora è molto più sollevata, è tutto finito, si volta subito per vedere se quell’uomo la sta già mangiando, ma sembra che ancora non ne ha trovato il tempo visto l’incedere di pedoni da un marciapiede all’altro, Marta avrebbe quasi voglia di correre, di allontanarsi, di estraniarsi, vorrebbe già essere seduta sul banco di scuola a fare un dettato. Oramai quello è un uomo morto che dirige il traffico, gli ho dato la lezione che si merita, ho eliminato un serial killer, sono stata brava, magari un giorno ne scriverò di tutto questo una storia, intanto deve sedersi in aula per una lezione di matematica della signora Galloni, la sua maestra. Le ore della mattina non lasciano traccia, Marta ha anche evitato di alzare la mano quando sapeva le risposte, la mente tornava sempre su quelle strisce pedonali, a quell’uomo, sarà morto subito, avrà sofferto, e se non gli piacciono le caramelle, arriva a pensare, ma non è possibile, a tutti piacciono le caramelle. Alla fine della mattinata come sempre è venuta Anna a prenderla, vorrebbe quasi domandarle se ha sentito di un incidente, ma si arrende subito quando in prossimità di quelle strisce vede dei vigili intenti a fare degli accertamenti, sembra che stiano prendendo delle misure da terra e poi ad una patita come lei di gialli non sfuggono delle macchie di sangue sulla strada e poco più in là, tracce di una brusca frenata. Cosa è successo, domanda Anna ad uno degli uomini in divisa, tra la sorpresa di Marta. Un brutto incidente signorina, è stato investito un nostro collega, è morto! Marta, padrona della situazione, finge un accenno di disappunto, quando un brivido la percorre dentro, sul ciglio della strada c’è la carta della caramella alla fragola, la riconosce perché a casa ne hanno un cofanetto pieno, le sale la paura, visto che Anna le mangia solitamente tutto il giorno potrebbe riconoscere la carta. Andiamo Anna ti prego. La porti via signorina, interviene una vigilessa da dietro, una bambina non deve vedere queste cose, le due si allontanano avvolte nei loro pensieri, poverino, fa in tempo a dire Anna, già, è la chiosa finale di Marta, già! Era il 15 gennaio 1993, ora Marta ha 22 anni, va all’università, studia psicologia, ha intenzione di presentare una tesi sull’inquietudine omicida, con un’analisi sul fenomeno dei serial killer, ancora si sta preparando e nelle pause ha scritto la sua storia.
La
morte viene dall’alto
Di Gianluca Parravicini
Ci sono giorni in cui anche il freddo ha bisogno del calore famigliare di cui tutti noi ci nutriamo, ci sono giorni in cui anche la realtà delle cose sfugge e diviene difficile riprenderla. Ma dove starà andando e poi cosa ci resta se sparisce la realtà e soprattutto è ancora realtà veder sparire la realtà, o stanno già sopraggiungendo i primi conati di fantasia, l’immaginazione si infila la tuta e le scarpe sportive, comincia a correre, correre, posso assicurare che non è sempre facile starle dietro, anche se per un po’ ci sono riuscito, così l’amore per il caffé si è trasformato in una storia d’amore con la caffettiera. Non abbiamo mai litigato, forse anche perchè se ne sta tutto il giorno in compagnia della tazzina e di qualche bicchiere appoggiata su una mensola in cucina, ma alla mattina il mio primo sguardo è solo per lei, si compie la prima esperienza tattile della giornata, non credo che gradirebbe essere sorretta da altri, la svito cercando di non provocarle turbamenti, introduco un paio di cucchiai di caffé tostato, la riavvito già coinvolto dalla sua sinuosa eleganza, quindi la ripongo sul fornello, nell’attesa mai vana che dopo il nostro rapporto si faccia ancora una volta, innamorare dal caffé. Così che ai suoi primi tenui sussulti spengo la fiamma, dalla sua bocca si colgono subito un valzer di aromi aspersi in un tenero vapore messianico, dispongo della sua generosità inchinandola sulla tazzina in modo che il caffé possa deliziare della sua calorosa voluttuosità prima le pareti algide della tazza e nel seguito di qualche soffio le mie più sensibili papille gustative. Negli istanti che seguono sono le sensazioni che si aggrappano ai pensieri, ed io sopraffatto dalla mia pochezza di uomo soddisfatto, la abbandono tra i piatti e i bicchieri sporchi della cucina, in attesa che i vestiti possano vestire tutti i momenti che si vogliono nascondere, così la realtà è tornata anche in questo giorno a camminarmi davanti e a farmi divorziare dalla fantasia.
Il destino di un giorno che sta per compiersi è come sempre quello di farti maritare con la realtà in un languido matrimonio d’interessi, si respirano ossimori a pieni polmoni, al confronto i danni prodotti dal fumo non sono niente, la luce del giorno strazia le vesti alla prima fantasia di giornata, appena abbandonata dal sonno. Il pianerottolo, l’ascensore, le scale, la giornata ha sempre i suoi canonici accessi, si accettano le lobbies del saluto, del sorriso, della stretta di mano, del grazie mille, le mani in tasca non ricercano solo un film, un racconto con quel titolo, cercano un po’ di pace, per non vedere, ma soprattutto per non voler subire il contatto di altri polpastrelli, che rappresentano il lato più tattile di ognuno di noi. Nel vagone della metropolitana, pressato dal tempo e dallo spazio la fantasia all’insaputa del suo datore di lavoro si riprende quel potere che in maniera fraudolenta le era precedentemente stato sottratto, la mente in un cammino inverso ritorna alla caffettiera abbandonata, tra incisioni rupestri di un ragù scostumato e tra rivoli di acqua calcarea, in quel comune e ospitale lavandino, mi sembra quasi di patire una comunanza di luoghi, il ventre affollato di questa metropolitana è come un lavandino sommerso dagli avanzi di vettovaglie. Le porte in quel loro mascellare automatismo, sgranocchiano così da espellere alla fermata successiva gli avanzi del cannibalesco pasto, per poi rifocillarsi con fresche pietanze accorse in massa sulla nuova banchina, garantendosi un menù a ciclo continuo. In una fase storica di immobilismo delle menti le scale mobili garantiscono certamente un buon esempio e un ottimo spunto a cui ispirarsi, riconducono alla luce che spossessa la fantasia, il fervore della città mi fa sempre starnutire, mi piace vedere le persone starnutire, è una debolezza incontrollata, è una ribellione del corpo, molto più sincera di uno sbadiglio che invece può anche essere indotto. Dentro al corpo del lavoro siamo tutti uguali, le identità raggiungono i propri desk, si attivano le lobbies delle buone maniere, si accendono i computers che ci trasferiscono quel balsamo di informazioni indispensabili a loro stesse, mentre la fantasia adombra il suo letargo da qualche parte del cranio, per poi risvegliarsi per strada nel corso del rituale caffé di metà mattina. Il bar tradisce la seduzione tattile della caffettiera in favore della chiacchiera, la macchina illanguidisce di caffé la tazzina senza neanche toccarla, diventa quasi un rapporto mercenario, si realizza una deiezione di caffé per 80 centesimi, per poi sbatterselo in gola al prezzo di pochi secondi, zuccherato diventa anche una pietanza calorica, così da addolcire una fredda abitudine, con le chiacchiere che nel breve abbandonano repentinamente l’esercizio commerciale per ritornare ad avere quel sapore più autoctono dell’ufficio. La pausa pranzo è la seconda evasione che le composte abitudine di un lavoro sedentario consentono, spesso mi concedo il lusso di tornare a casa, la vicina metropolitana accorcia le distanze come un concorde sotterraneo, visto l’orario le pulsioni cardiache altrui non sono così ravvicinate, riuscirei anche a sedermi se lo volessi, ma l’idea si stare in piedi mi fa sentire più padrone di me stesso. Quattro giri di chiave suddivisi per due serrature e mi riaffaccio nella quiete domestica, lampeggia il rosso della segreteria telefonica, che per la vegliarda età posseduta non registra più le telefonate, si limita a memorizzare solo i numeri che oramai sono i mandanti di tutto. La seduzione che esiste in cucina non esiste nelle altre stanze, altrove al massimo si può creare la seduzione, il lavandino ingombro di piatti è uno dei luoghi più seducenti della cucina, è come un letto sfatto, abusato di sonno e passione e poi a curiosare dall’alto, come un faro vigile sul porto, c’è la caffettiera. L’incantesimo è ripulito dalla lavastoviglie, mentre con la caffettiera è un corpo a corpo sotto l’acqua del rubinetto, ripulisco le impurità con una spugnetta, senza nessun detergente, cerco di non infierire sulla cromatura, la svito per far giungere l’acqua anche negli gli angoli più reconditi, spogliata della sua interezza perde quella regale eleganza, quindi cerco di fare anche in fretta, per restituirle l’onore perduto. Qualche giro del microonde riscalda le lasagne, che per contratto hanno l’obbligo di divenire fumanti, con la caffettiera tronfia nel suo etereo splendore che giace un po’ spossata per lo strapazzo sopra un ripiano. Le lasagne raggiungono quindi un vicino piatto per poi gettarcisi dentro, principalmente per sfuggire da quella ignifuga confezione che li custodiva da tempo e poi per quel ruffiano piacere di ergersi a protagoniste su quel mobile palcoscenico che è la forchetta. Mi piace mangiare da solo, qualche volta accendo la radio, raramente la televisione, mi piace ascoltare ciò che mangio. Rapinato l’ultimo boccone di lasagna, il tempo che mi resta è solo per un caffé, con uno sguardo raggiungo la caffettiera prima ancora di toccarla, conoscendo le mie abitudini temporali credo che non le sfugga quando ho bisogno di lei, è consapevole che la penuria del tempo non mi consente quelle attenzioni e quelle doglianze che alla mattina appena sveglio le tributo, con un accenno di perizia violo la sua interezza per introdurre quel po’ di acqua necessaria e un cucchiaio di caffé, una volta riassemblata la appoggio sul fornello nella circostanziata attesa che un rapido amore faccia il resto, magari mi capita anche di ravvivare maggiormente la fiamma. Con il compiersi dei primi sussulti spengo la fiamma, per lo strapazzo dalla bocca della caffettiera fuoriesce una tenue fumata che coniuga subito il profumo del caffé all’ambiente circostante, quindi incaglio le dita all’impugnatura della fredda tazzina e con un accenno di danzante casquet piego la caffettiera così da spogliarla di quel caffé fumante che trattiene in corpo. Il primo contatto è con le narici che vengono assalite dalla piena fumante, con la bocca che si insinua nella tazzina come un felino a caccia nella foresta, raggiunta la fumante preda il primo assaggio di studio anticipa i successivi che consentono rapidamente di raggiungere l’inebrio del piacere olfattivo, subito un vento di calore si promana lungo il corpo, accendendo di un calore rossastro la fronte, in quei pochi attimi mi sento così forte da poter sollevare il mondo, il rito si è poi compiuto con il tonfo della tazzina sul piattino, così da condurre quei pochi istanti in una memoria consumata di fretta. Quattro giri di chiave suddivisi equamente per le due serrature e giù lungo le scale, la fretta viene sempre a cercarmi e quasi sempre mi trova, come d’abitudine mi conduce ad una sfida impari con le lancette dell’orologio che hanno la fortuna di essere più allenate al movimento rispetto al mio passo, del resto mi posso anche permettere qualche minuto di ritardo, quindi non nego che qualche volta le lascio anche vincere. Il pomeriggio si differenzia rispetto alla mattina perché le occhiaie si sgonfiano, le camice fresche di lavanda non sono più fresche, profumi e deodoranti hanno svanito il loro effetto, i capelli assumono talvolta una fisionomia più anarchica, in sostanza tutto ciò che si è preparato accuratamente la mattina davanti allo specchio va in disfacimento. Le ore si tessono con gli sguardi rivolti verso l’orologio del computer, i rampanti non sono tali se non hanno almeno l’ultimo appuntamento con un cliente dopo le 18, io spogliato da qualsiasi compulsione attendo quell’attimo che coincide con le 17,30 per liberare la scrivania e fare rientro a casa. Il buio della sera è un’abitudine che le giornate invernali acquisiscono assai presto, cumuli di pensieri inerti si insinuano alla ricerca di quella chiarezza che difficilmente raggiungano, la porta di casa è ancora una barriera da infrangere, anche per un uomo di fantasia come me. Non ho mai capito se nella mia vita la realtà è vittima della fantasia o la fantasia è vittima della realtà, del resto i dubbi spogliano solo altri dubbi, solo in casa sono come un bersaglio di me stesso, mi riconosco principalmente attraverso le impronte che lascio sul pavimento, così mi conduco verso la cucina. Non accendo subito la luce, mi piace immaginare dove possono essere le cose, provare a riconoscere la frutta nel suo cestino, mi piace sentire il motore del frigorifero, che ha una funzione così vicina e così lontana a quella di madre natura, cioè quella di conservare sani gli alimenti ma causando uno spreco di risorse, la luce della sera filtra dalla finestra e si riflette nella bottiglia dell’olio rendendola forse anche più digeribile e poi in fondo verso il lavandino c’è la caffettiera, mi sembra anche di vederla, ho quasi paura a toccarla, non credo che sia abituata a sentirsi maneggiata a luci spente così fingo di osservarla in quel suo stanziale profilo. Pochi passi e l’interruttore aggredisce qualunque altra immaginazione con uno squarcio di luce sintetica che riordina i pensieri riducendo la fantasia a banale suppellettile dell’anima, dovrei forse anche pensare alla cena, ma questa sera non ho molta fame di necessità. Ho voglia di darmi vita, faccio partire la traccia 12 del cd, “Carina” canta Nicola Arigliano, dice, “carina, diventi tutti i giorni più carina, ma in fondo resti sempre una bambina”… un’atmosfera di jazz da cucina si ripercuote dalle casse per trafiggere l’ambiente circostante. Accendo la cappa assorbiodori perché mi piace pensare che catturi queste note per portarle da qualche altra parte, in un passaggio la canzone parla di una boccuccia deliziosa, io non posso che immaginare la boccuccia della mia caffettiera che mi fa gustare l’amore per il caffé. Accendo anche il piccolo ventilatore e lo punto verso le tende, giusto per vederle coinvolte con la musica, sembrano quasi assumere la funzioni di direttori d’orchestra, del resto la “stoffa” non gli manca….. In questo momento dentro la cucina c’è tutto me stesso, molto più che dentro il mio corpo che trovo quasi superfluo, sento addosso un vestito di sensazioni che nasconde malesseri e turbamenti, dal rubinetto fugge qualche goccia d’acqua, fotografa l’istante e se ne scende giù per lo scarico trattenendosi qualche ricordo molecolare della mia vita. Come sempre i momenti li preparo con tutto quello che la cucina mi offre, alla fine del brano musicale spengo lo stereo, qualunque altra musica danneggerebbe tutto quello che c’è stato, spengo anche la cappa assorbiodori e il ventilatore, lasciando le tende in quella perseverante immobilità, per ora è tutto finito. Il silenzio è una grande busta sigillata che racchiude tutta questa fantasia, apro un cassetto della credenza e la infilo con cura, la realtà di questa ora di cena decide di procurarmi improvvisamente l’appetito che mi mancava, ho sempre pensato che a posteriori un eccesso di fantasia procuri appetito, con l’amicizia che mi lega alla pentola a pressione decidiamo di cuocere qualche patata, mezzo cavolfiore, due zucchine, a cui nel piatto proporrò la compagnia di un vasetto di salmone. Il tempo dell’attesa è difficile da ingannare, l’intelligenza dell’uomo credo non vi abbia trovato alcun rimedio, io suggerisco di guardare fuori dalla finestra, era un po’ come sfogliare il sillabario alle scuole elementari per guardare le figure, io guardavo sempre le ultime pagine, come se nascondessero qualcosa di proibito, invece erano semplicemente pagine che raccontavano aneddoti storici, ma per me era come se trattassero di argomenti che dovevano ancora succedere. Detesto pensare troppo, l’accumulo di pensieri è una sorte di mestruazione prodotta dalla nostra anima, oltretutto è poi difficile liberarsene senza che lascino traccia, per questo preferisco mettermi disinvoltamente a disposizione della fantasia, del resto credo che la fantasia sia uno dei momenti più igienici che il nostro corpo riesce a produrre. Gli sbuffi della pentola a pressione si occupano di far evadere il vapore in eccesso presente all’interno della pentola, il vetro della finestra coinvolto dal calore della fiamma arrendevolmente si appanna, subito sento il bisogno di aprire il cassetto della credenza per estrarre la busta che trattiene la fantasia, la apro ed ecco che lo scenario che si delinea fuori dalla finestra, nell’imbarazzo di questi pochi attimi di appannamento cambia, il cortile sembra un’immensa area antartica, i fari delle auto assumono le fattezze di famelici orsi polari coinvolti in una itinerante caccia alla preda. Mi convinco che questa cucina è l’unico luogo caldo di tutta la penisola antartica, siamo soli, io e la mia caffettiera, coinvolti in questa spedizione pregna di rischi, la pentola a pressione è l’unica fonte di calore accertata all’interno della cucina, fuori la temperatura è -50°c impossibile sopravvivere, mi sono rimasti viveri solo per pochi giorni e ho la radio fuori uso. D’improvviso un suono sembra tradire ogni cosa, è un suono che conosco, che mi è famigliare, ma è un suono che ora non dovrebbe esserci, non qui in Antartide, non ora, invece c’è, è il telefono che squilla come un ossesso, la fantasia ritorna nella busta, con una mano ripulisco il vetro appannato, si vedono il cortile e le macchine in sosta nella via, il telefono squilla incessantemente, sovrapponendosi agli sbuffi della pentola a pressione, non posso fare a meno di rispondere ma succede nell’istante esatto in cui il chiamante ripone la cornetta, lasciandomi in ostaggio delle sonorità telefoniche. Riesco anche a sorriderne, non mi resta che spegnere la fiamma e predispormi alla cena, tanto non è successo niente, perlomeno niente che posso dimostrare, dove trovo il ghiaccio dell’Antartide, gli orsi polari, ora ho solo tra le mani un vasetto di salmone, tra un po’ saranno solo loro a risalire la corrente, parlo naturalmente dei vasetti. Un piatto di verdura è la miglior compagnia che il mio stomaco gradisce per cena, non richiede una poderosa masticazione e ha un alto grado di digeribilità, riempie il piatto di forme inusuali e ha una bella composizione cromatica, in un’epoca come la nostra, spazientita anche dal tempo dell’attesa, la verdura è uno degli ultimi rudimenti di saggezza prodotti dalla terra. Chiuse le ultime esperienze di masticazione della verdura, la cena restituisce all’ambiente quel protagonismo di cui si era giustamente appropriata, è giunta l’ora dell’ultimo caffé di giornata. Il momento tattile con la caffettiera ora è molto più prolungato, la fretta è lontana, la fantasia è battente come l’acqua del rubinetto che si infrange sulla caffettiera, prima di offrirle il cucchiaio di caffé tostato, asciugo accuratamente la cromatura bagnata con un panno, compattata in tutte le sue parti la accompagno all’altare della cucina aspettando che il calore della fiamma la unisca in matrimonio con il caffé. In pochi attimi la cerimonia ha il suo momento di maggior fulgore con quelle proverbiali prove di canto della caffettiera che sanciscono l’avvenuta fecondazione con il caffé, per vivere l’immediatezza di questa vaporosa gioia, ne riverso subito una quantità nella tazzina, l’intenso calore le dona subito una “febbre da tazzina”, infine avvicino la bocca per partecipare alla festa con piccoli sorsi di amorosa gratitudine, quindi restano solo cumuli di silenzio. Il vetro della finestra è ancora leggermente appannato, quel tanto che basta a catturare l’attenzione per qualche istante, le dita della mano destra trattengono stancamente la caffettiera, si tratta solo di appoggiarla sulla mensola, tra un paio di bicchieri da vino inutilizzati da tempo, il braccio si protende sfuggendo all’attenzione dello sguardo, è solo una questione di pochi centimetri, è un gesto ripetitivo, tutte le sere la caffettiera torna lì, sulla mensola, ma non questa sera. Quando tutto sembra finito, quando la caffettiera sembra essersi assestata sul ripiano, così che la mano se ne scende lungo i fianchi, accade quello che non doveva succedere, il suo baricentro occupava solo pochi centimetri della mensola, prima ha barcollato, come se si aspettasse un rapido assestamento, per sfuggire un pericolo imminente, per poi cadere con tutto il suo peso sulla mia testa. Lo stupore mi ha attraversato come un lampo, l’equilibrio si fa precario, la vista si appanna ancor più del vetro della finestra, impatto il pavimento con la tempia, il sangue esce copioso dal naso e dalla bocca e si coniuga con quel po’ di caffé avanzato e fuoriuscito dalla caffettiera, così è morta tragicamente la mia fantasia.