Racconti di Patonsio




Doppia personalità


di Patonsio



 

All’occhio del viaggiatore in osservazione affettuosa, le molli pareti e i versanti non troppo erti degli Iblei raccontavano, con orgoglio e con rispetto, qualcosa dei tempi di cui son figli e di cui portano il ricordo, affidando a una tenue brezza il bisbiglio che impercettibile narra di quando la terra si torse e si crepò, e dal suo straziato corpo, tra i lamenti e i rammarichi del parto, le cime e i crinali destinò fuori. 
Magari Patonsio, su tali belle quaternarie storie, non rifletteva acutamente e troppo, ma oltre il parabrezza della lapa poteva, a suo bell’agio, – volendo prescindere dall’insignificante ostacolo delle pillacchere dei moschini a migliaia suicidatisi negli anni ruggenti del trabiccolo audace – lanciare come un beffardo grido di sfida alle vanitose alture che osservava disegnate sull’orizzonte dello sterrato ch’egli percorreva, concedendosi, tra una curva e l’altra – disordinata felicità! – la fregola della derapata nel tripudio del polverone lungo tratturi aspri, dove le peste di capre avevano arabescato il suolo di screzi, e il brivido asprigno della marcia gloriosa su due ruote, per metri pochi, – (vero è…) – ma esaltanti. 
Ed era il grido d’orgoglio che Davide lanciò a Golia, l’urlo d’intrepidezza ch’Ettorre oppose al figlio borioso di Peleo, il bercio d’impudenza che la volpe sostenne appetto all’uva succosa e inaccessibile – (del resto, un che di favolistico e leggendario conteneva la carcame dell’eroe nostro…).
Correva, Patò il briccone, col grintoso catorcio rombando, l’isterilita e riarsa contrada – caduta in dimenticanza nella mente di Dio quando mise mano alle terre doviziose – in un luminoso meriggio di giugno – stravagante mese portator di misteriose preveggenze e malefici sensi, in cui s’aveva l’impressione che le stagioni con i loro torpori e le loro concitazioni vogliano scapricciarsi di correre in senso inverso a quelle degli uomini contrariandoli nei sentimenti – : aveva a far ordinativi di sementi, e bene misurati pure, a meno di non incorrere nelle ire dello zio, crudo e selvatico un’anticchia. 
***
Solo una volta infatti, – ma bastò… – Patonsio aveva preso, per sventatezza, lucciole per lanterne – o per esser più precisi, miglio al posto di avena – e la ricompensa che n’ebbe da parte dello zio Santo – di nome, ma non di fatto – fu:
– O Patò, disonesto amaro, che è ’sta purcarìa?
– E che è zio..? la robba che mi cercasti tu…
– Ah sì? Vieni, al nipote di tuo zio… vieni qua, che ti dico un fatto…
Però non gli disse, il fatto, invece agguantò con la destra – ch’era simile per grandezza a una pala di muratore – il capoccione d’adolescente ancor tutto zazzeruto e lo ficcò con forza selvaggia nel gran sacco di becchime finché non ritenne che si fosse, finalmente, emendato della colpa dell’esistenza sua citrulla spandendo dagli orifizi maggiori l’ultimo sbuffo vitale. 
Una volta rifiutato, – meglio si direbbe: spurgato – il terrificato giovanotto, dal grembo marcescente dell’orrida Nera Signora, – non ancora, e per fortuna, l’ora estrema era sonata – la sua dimestichezza con le graminacee risoluto accrescimento ricevette, non così la saldezza psicologica, di modo che d’allora in poi si tenne per fermo il principio che conservare la pelliccia in buona salute è cosa bellissima e igienica.
***
Allorché Patonsio raggiunse la masseria di don Peppino “Maccefìcu”, – tale era il nome e il soprannome dell’irsuto (e odoroso, a dirla tutta) commerciante, conseguito in virtù della fama di resinose secrezioni (che delicatezza verso le giovani lettrici e amor di decenza c’impedisce qui di descrivere) – in buona parte attrezzata da deposito di sementi e granaglie, s’addentrò nell’aria fatta polverosa sia da un fervore laborioso e disordinato d’uomini che attendevano alle fatiche di carico e scarico delle merci, sia da un fitto frullar – non meno – di baccagli e bestemmie, – così s’usava, allora, presso quel tipo di figure intagliate nel legno adusto d’olivo e in quello torto di carrubo – e d’un subito prese parte alla babele, questo salutando, quello rimbeccando, quell’altro sfotticchiando, la propria vena apportandovi di competitore ancor fresco e – d’elezione – di minchiate sazio mai.
– Oh, Patò, – fece Maccefìcu, rivelandosi dalla penombra d’un portico, trasportata l’epa abbondante nella cornice dei battenti d’antico e rugoso legno greve – questi già ci sparano di lontano con la carabina … ti ci metti pure tu… che mi pari tanticcia assai sciarriato magari ’cò travagghiu …
– Ah, ne viru picca péni nìviri, don Peppino, – piccato rispose il picaro nostrano – lei che sape..? U sacciu ’iu chiddu ch’agghiùttu! 
– ’A vèni kà, sdisonorato, che iu magari u sàcciu chiddu ka ti piaci r’agghiùttiri..! 
E con tali parole lo instradò in uno stanzone, alto di copertura e di pungente sentore d’uve con sapienza imbottate: era un vasto brumoso cantinone infatti, nel quale ciclopiche botti sovrastavano minacciose gli umani appena introdottisi, e parevano volerli intimorire con la loro formidabile mole e con il loro pondere mostruoso, di certo concepito in evi leggendari. 
– Assaggia Patò… assaggia, – si vantava Maccefìcu – assaggia ti ’rissi! e poi mi fai ’u piaciri che ci dici a tò ziu se n’ha sentutu parlare mai di vino come a questo… e se mi viene a trovare, ci devi dire magari, ’u fazzu turnari ’a casa, quant’è vero Cristo, cunfessatu ’ri friscu e a qrattru pèri com ’e scìmmî..! 
Succhiò in effetti quel Patonsio, poi sorbì, poi trangugiò, giù sorsate arrovesciò di veleno forte e dolce, e quando infine l’esplosiva droga si spandè nel labirinto delle budella, cominciò a vaporare dal cranio lucido, rintronato persino nell’intimo lumicino di coscienza sorda che d’aver non sospettava. 
Stordì. 
Smemorò la vita iniqua di puledro garrettuto. Rischioccava la linguetta di furetto malizioso; gracidò riverberando empi erutti dalla bocca e dalle froge, come qualche volta s’ode presso d’un boschivo stagno.
Quindi, dall’oblio preso d’uomini e cose, quasi parve meditare. 
La parola non impressioni: lo avresti detto assorto dentro un mondo sconosciuto, nel quale avesse ad imbattersi senza preavviso, come per magia, faccia a faccia col mistero della vita. Un mondo nel quale finalmente potessero rivelarglisi gli enigmi ineffabili del cuore impetuoso, l’intima essenza della storia dei mondi, l’incantesimo magnifico dello spirito che nobilita i giorni nostri terreni trasfigurandoli con la superiore virtù delle idealità elevate e rilucenti, e che con la vigoria della conoscenza la misera esistenza dell’uomo eleva nell’eletta sede delle cose necessarie ed eterne. Un mondo nel quale potesse osservare, sporgendo impercettibilmente il capo, con serenità olimpica, lo splendore del sole che faceva sudare i tetti e gli acciottolati umidi e le anguste viuzze rustiche; nel quale udir potesse stupefatto e docile i subbugli confusi del lavoro quotidiano e sentire la solitudine e il segreto delle forre popolate dagli spiriti della terra, come in una fiaba stravagante e bella.
Lo avresti detto conquistato e rapito in un mondo… tuttavia Patonsio era, e restò, essenzialmente, intrinsecamente, ’mbriaco, quindi apolide nell’animo ed estraneo a quello e ad altri mondi, sicché a questo mondo venne invece richiamato seccamente dal ruvido grossista:
– Ô Patò, cheffà, accapputtasti? Arripìgghiti bèddu, che ’a jurnata ’ni sta scurànnu..! 
Si riscosse nelle fibre sue belluine quel ragazzo esuberante dallo spasmo dei neuroni e riprese tosto il governo:
– (Tra sé: )« M… che bǘottu!» – (ma all’esterno: ) – Si stasse quèto , don Peppì, ché alla mia casa, alla mattina, col vino più masculu di questo, ’ni ci bagniamo i biscotti … avanti, ora vediamo che mi deve dare, ché lo zio aspetta, e a quello, l’aspettativa, mai ci è piaciuta… 
– Sisì, vèni Patò, amunìnni ’o magazzenu, pìgliti la ròbba chè io magàri c’iaiu che ’ffare.
***
Giusto stavano incamminandosi verso il magazzino principale, quando fece apparizione una donna. 
Una donna… bah! Oddìo, donna… 
Tecnicamente, si poteva ben dire paresse una donna, ma in realtà non era semplicemente una donna. Piuttosto un insieme di donne, un agglomerato di femminee sembianti, una concentrazione illegale, un ammontare di qualità e quantità muliebri, un consorzio di arti e mestieri… era… le donne… era… la femmina. 
E che sorta di femmina! Benché all’apparenza stridesse illogicamente, furiosamente, quella femmina, nei panni di moglie del selvatico commerciante, ad ogni pio conto questo era: la moglie. Poco da discutere! 
Quanto inappropriato, inverosimile, poteva sembrare quell’animale stupendo nel ruolo di moglie, e non solo di tal bifolco grossolano, ma di chiunque persino, in quelle terre riarse e amare. Anche alla prima, superficiale occhiata si poteva scorgere in quella creatura di inconsueta, anomala bellezza e ferinità, una totale mancanza di attitudine ad esser moglie, coniuge, consorte, perché… ma perché… come poteva essere consorte, condividere le sorti di chicchessia quell’essere così emarginato da qualsivoglia comunanza, affinità, appartenenza o reciprocità, collegamento o spettanza con l’ambiente circostante, con il paesaggio in cui fluttuava un simile fantasma di “carne femmina”? 
Vederla incedere, ondeggiare, – per dir meglio – spostarsi in grazia di una qualche forza di levitazione naturale anziché muover passi, era ancora possibile; immaginare che spargesse acque aromatiche di timo e di cannella a rinfrescar le belle membra, era plausibile; attendersi che appressasse carnose ciliegie sanguigne alle labbra turgide, concepibile; ma che respirasse la stessa aria impestata dall’alito di don Peppino o delle altre bestie, come si poteva tollerare?
Che ci faceva quel fiore sensuale, 
quel frutto succoso, 
in quella discarica di uomini? 
Perché la natura offre a tradimento, quando meno lo si aspetta, il presagio lacerante d’una vita altra e dolce, lo scorcio di un paradiso mai sognato in questa terra, la vista commovente oltre ogni dire di quel che si è sempre spasimato, pur senza saperlo, la terribile visione di quel che potrebbe accadere e che mai, forse, accadrà?
Perché?
Non riuscendo a trovar risposta a tali interrogativi che – ancorché in forma assai più prosastica – non volevano saperne di acquietarsi stagnandosi nell’intimo ma, come mosto che nel tino fermenti, lo tormentavano facendogli borbogliare sulle labbra una schiumosa mareggiata di sonanti muggiti, Patonsio impazzì.
Maledetta vita infame! 
Maledetto il mondo porco! 
Maledetta la fortuna, 
che altrove se ne fugge, 
sussurrando versi strani 
che l’orecchio intende poco!
Dal di fuori non si poteva comprendere distintamente il dramma immane che incrudeliva nelle polpe, ma all’interno… oh, all’interno… Patonsio divenne pazzo.
Pazzo di rabbia e di gelosia. 
Pazzo per l’oggi e per sempre. 
Pazzo per scelta e per necessità.
Pazzo di sdegno e di risentimento verso la sorte buttana!
Pazzo, sì… d’amore!
***
Strana e polimorfa bestia, il cosiddetto amore! 
Per quanto se ne dica, se ne canti, se ne sproloqui, con tutto quello che se ne sia straparlato e scritto in tutte le epoche, mai per la coda si potè afferrare, la bestia suddetta; mai se ne fissò un suo ritratto che la potesse identificare in modo definitivo per le genti tutte; mai che si sia riuscito, a dispetto dei miti e delle leggende innumeri, a rinchiuderla in una capace ampolla attraverso cui osservarla nel volto proteiforme. 
Eppure chiunque ne sa; ognun dice d’essa; ritengono tutti di poterla descrivere, la belva furiosa; non vi è chi rinunzi a dir la sua, tanto più se ne ha soltanto sentito parlare, tanto più se non ne ha riportato ancora le vesti sbrindellate e schiantato il cuore nell’impari lotta contro tal’infrenabile, spietata, irresistibile fiera.
***
Eruditi e letterati, 
istruiti e gran sapienti, 
ma non meno gl’ignoranti, 
gl’inesperti e i scimuniti 
– che di molto aiuta invero… – 
giuran sempre di aver visto, 
incontrato e frequentato, 
conosciuto da vicino 
quella bestia eccezionale 
e di averla accarezzata 
nel suo muso irregolare; 
poi dichiarano d’averle… 
dato cibo di persona 
– garantiscono in gran parte: 
sostanzioso ed abbondante; 
e gli altri, meno ricchi: 
quel che c’era o si potè – 
per cui molto facilmente 
riconoscono l’odore, 
ne ravvisano le tracce, 
sànno tane e nascondigli… 
noi che siamo forestieri, 
che veniamo da altra parte,
e che siamo piccoletti,
senz’aiuto di tutori,
d’avvocati difensori
che ci salvino le penne
quando il caso volga al peggio,
noi che siamo mal provvisti
di difesa o protezione, 
che malati poi eravamo… 
messi a letto con la febbre
e cataplasimo sul petto
quando che passò la bestia,
noi, bestiole incompetenti,
inesperte, impreparate,
noi, capaci ad un dipresso
sol di fare scena muta,
procurare nuove gaffes,
e cavarcela assai male
se ci capita l’inghippo…
ci fidiamo del poeta 
che descrive il leviatano, 
o di quello assai famoso 
che narrò di quell’uccello… 
di quell’araba fenice: 
cosa sia ciascun ne dice…
***
Mentre il tarlo della follia d’amore – o qual che fosse in ogni caso l’inatteso e tormentoso parassita che martoriava un corpicino ormai esanime (sempre di Patonsio, alla fin fine si parla…) – faceva festino e scempio delle spoglie mortali e delle cervella di quel bravo – ( ibidem ) – giovanotto, esordì il femminone: 
– Peppì, la zia Rosa ti manda a dire se domani ci puoi portare un’altra partita di… Buongiorno! Ah! Ma che, avete assaggiato quello nuovo? E com’è venuto? A quest’ora è buono, no?
– Ma ’nsù… Ginù… Certo… è sempre robba del zio Peppino, modestamente appàrte..! Ah! Eh! Eh! Eh, Patò? Com’è..? Qua… Patò, già l’assaggiò… e penso che s’affezzionò, io dico… no? Che dici?
Patonsio dal canto suo, data la composita congiuntura, sovrabbondante di sempre aggiornate malie e perfezionate stupefazioni, propose un’eccellente imitazione del pesce azzurro agonizzante, spanto sullo scoglio per l’esplosione di granata, nella quale si rimarcava l’accuratezza dell’occhio vitreo, la precisione delle labbra boccheggianti e la meticolosità delle gorge ansanti – (e dire che mai si sarebbe sospettata nel robusto giovane manzo campagnolo tanta dimestichezza con la fauna ittica!).
La parodia mimica con tutta probabilità dovette riuscire così ben eseguita che la femmina Gina non fece a tempo a imbavagliare del tutto, in quella gola d’alabastro, un risolino divertito che finì Patonsio procurandogli in successione: 
n° 1 aneurisma, 
n° 1 ischemia cerebrale, 
n° 2 collassi cardio-respiratori, 
n° 1 crollo di pressione sanguigna (al di sotto dei valori ritenuti normali nella specie dei colibatteri fecali).
Un animale abbattuto.
***
Di tanto in tanto qualche rantolo nella strozza e qualche sussulto del tronco però rivelavano una qualche forma residua di attività nell’organismo. Come ultime scosse di vita che girovagassero inspiegabili pel corpo dell’animale vinto e condannato.
***
– Io pure lo voglio assaggiare!
– No, Gina, lascia perdere, che tu non sei cosa di assaggiare vino, ché non ti fa tanto bene…
– Già… ma quale..! un ditino… che mi può fare un ditino di vino?
– Pure a stomaco vuoto, sei…
– Vabbè… tanto è quasi ora di pranzare… un assaggino… un aperitivo… come fanno alla televisione! – poi, rivolgendosi gaia (e un poco complice) alla salma di Patonsio – Ma che marito esagerato che mi capitò! Può essere mai che fa il vino migliore della zona e io non lo debbo conoscere? Eh? Lei che ne dice? 
Patonsio, accoppato nel corpo ma trucidato nello spirito, avrebbe voluto dire: « Gioia mia, fiato mio, tesoro ’zuccaratu mio arùci … », e avrebbe altresì condotto le labbra della femmina Gina ad un’altra più esclusiva fonte, ma tutto quel che esalò fu:
– Ĥ...
Poi credè di doversi riavere un poco, si fece forza, e con gran sforzo gittò fuori;
– Eh…
E in quella, quasi d’alleviar l’imbarazzo mortale di Patonsio la sorte avesse deciso, un famulo franò dentro la gargotta improvvisata, a blaterare poco comprensibilmente in una personale riedizione di dialetto indigeno:
– ’Ron Pippì, avissi a vèniri ’ri prescia ’o magazzénu, pirchì successe ’n fatto! 
– O camurrìa… kié, kiè ka succirìu? 
Fuori si precipitò il commerciante, caracollando sulle corte zampe già gravate della panza onusta, sempre ansioso d’attendere ai molti crucci dell’azienda.
– Di difetti ce n’ha, vero, – flautò allora la signora Gina, nel concedersi avida sorsi abbondanti della bevanda che doveva essere, a quanto pareva, senz’altro di suo indubitabile gradimento – ma il vino lo sa fare, eccome! Che ne pensa?
– E che ne debbo pensare, – ansò Patonsio che penosamente imprendeva la spossante risalita verso il mondo dei viventi – certo, di essere, questo vino bello è, privo diddìo! Poi lascia un sapore… mmm! Troppo speciale..! – ma istintivamente, colto da pudore inconsueto, portò una mano davanti la bocca per arginare le tanfate dell’alito che rievocava i recenti trascorsi di trapassato redivivo – aaaàh! Che bello sapore che lascia nelle jarge! 
– Ah ah ah! – rise svagata la femmina – Ma lei, allora, è un naïf ..?
– No, io veramente sono dei Cardoni, – declinò Pat, reputando cosa decorosa (e d’un certo sussiego) esitare le proprie generalità – a me mi dicono dei Cardoni, di Civitammuffùta di Sotto… però io giro, sempre vàiu caminànnu, và..! e insomma mi sposto!
– Ah! Ecco perché! – sorrise quel pezzo di figlia d’Eva, che qualcosina aveva intuito dell’esser colui un poco spostato, sfoggiando una dentatura così ben fatta e incantevole da far venire frenesia di carezzarli, quei denti, e di mandar loro baci in punta di dita. (Ahhhh..! )
***
Quello che con tanta urgenza la premura avea chiamato di Peppino Maccefìcu, era per l’appunto un fatto di per sé poco ordinario: lo splendore folgorante di quel sole meridiano, o le cupe ombre di lutto nel terreno proiettate, l’estro mobile ed il ticchio – ed il sangue malandrino – sobillato avean del tutto il puledro Murruzzièddu, il più ombroso ed impulsivo, il più giovane cavallo della ricca fattoria. 
Rotta con enorme forza la cavezza quasi ormai troppo logora e sdrucita, l’ammattito cavallino con violenza avea scalciato sulle natiche del figlio d’uno dei lavoratori, – sopraggiunto petulante con incauta baldanza – malmenandolo in maniera a prim’acchito preoccupante. 
Fatto sta, il piccolo fesso, rintronato per la botta e dal timor pietrificato, s’era fatto smorta statua di salgemma o cera inerte, e restava a terra imbelle, in balìa dell’irruenza del quadrupede focoso, che infierito certo avrebbe sul quel giovane stordito, se un codazzo sparpagliato della gente di fatica non si fosse scatenato a far strepito e bordello, buona cosa sì, da un lato, perché il corpo a terra steso nascondevano alla bestia, buona meno d’altro canto per il fatto di spaurirla ed aizzarla ancor di più.
***
Cadde di mano il bicchiere a Gina, preda d’un fulmineo stordimento.
– Che fu? Che c’è? Che cos’è il fatto? – trasalì Patonsio scorato nel vederla prossima allo svenimento – Che si sente, signora? O Matre Santa! – e si gettò a sostenerla, pur non sapendo da dove agguantare tutta quella femmina maestosa ( e, del resto, quand’è che capita nella vita di agguantare portenti cosiffatti?).
***
Con ramazze e legni e vanghe, e forconi e verghe varie, quella torma avea apprestato – ma crudele non di meno – una insolita corrida. 
Chi gridava a perdifiato, spaventando l’insanguato cuccioletto di cavallo, chi l’attrezzo mulinava per costringerlo nell’angolo, chi correva senza scopo sia da un lato sia dall’altro dello spiazzo polveroso, ritenendo di menar contributo e soluzione, chi le braccia roteando lo incalzava per carpire, meglio d’altri – o forse prima – l’attenzione del cavallo, chi soltanto la gazzarra e lo strepito superfluo produceva là per là, come spesso può accadere in un lesto assembramento, proprio tutti – occorre dire – tutti uniti a complicare quell’anomala faccenda, inasprendo e tormentando la bestiola sempre più.
***
Ecco che nelle braccia inesperte di Patonsio la maliarda prese a smaniare sospirando e illanguidendo in sinuosi contorcimenti, agitandogli le carni profumate di paradiso sotto le nari taurine fumanti – e, come ognun sa, il fumo fa male… – mentre una terribile ricaduta nella follia minacciava di farlo sfracellare in uno spaventevole abisso di perdizione.
***
Don Peppino Maccefìcu, di man svelto e di bestemmia, – ch’era il modo suo di avere il controllo delle cose – non tardò a far travasare troppo sangue nella testa: un’accetta afferrò lesto, con i suoi gambetti corti appressandosi al puledro che a infuriare continuava dentro il piccolo gruppetto di molesti scalmanati, – quasi si sarebbe detto – eccitati ed esultanti per la festa inusitata dove Morte si celava dietro un angolo vicino. 
E faceva con la mano, quella Brutta Disonesta disumana e repellente, quel suo gesto di solecchio, con lo scopo solo di aguzzar meglio la vista.
***
S’agitava la virago, pur con dolce mollezza, e Patò, che non era tipo da farsi pregare in casi molto meno impegnativi, pericolosamente principiava a disseccarsi, eccezionale quantità di sudore e mefitiche qualità di vaporizzazioni disperdendo. I pesanti braccialetti d’oro massiccio pareva volessero sfilarglisi per il subitaneo dimagramento e per la scivolosità degli avambracci, e al tempo istesso l’opprimeva l’imponente catena al collo – ingarbugliandosi nel fitto pelame del torso – sembrandogli avesse di colpo quadruplicato la gravezza della zavorra, che già nativamente l’artigiano avea progettato resistente al peso di crocifissi da competizione.
***
Alla vista dell’accetta, impugnata brutalmente dal padrone don Peppino, un bimbetto impressionato prese a spargere gran pianti, accorati e assai taglienti – e singhiozzi anche di più – e magari forse quelli, là sarebbero bastati a fermare tutto in tempo, se la piccola marmaglia non avesse ormai iniettato, sottopelle, già efficace, il velen della violenza e dell’empia crudeltà.
***
A mezzo del violento processo di disidratazione, alle orecchie di Patonsio giunse, più chiara della babilonia che fuor si agitava, una parola che però parola non era, perché era piuttosto un suono lontano, forestiero, esotico: 
– Mangiami!
Quel suono, ancorché trasportato da una fragranza di zagare e fior di pesco – con un sentor di gelsomino, e sambuco ancora – arrivò alle orecchie di Patonsio con la soavità di una randellata a tradimento, con la benignità di un colpo di badile sulla nuca.
***
Maccefìcu gli fu innanzi, Murruzzièddu in un istante si arrestò dal ribollire, assai schiumava dalla bocca, ma immobile si fece. Lo fissò con occhi gonfi di terrore e di follia, fu così che… lui capì.
Capì subito l’incauto, inesperto cavallino, la follia e la deviazione del minuto squilibrato di cui fu schiavo infelice; parve che indietro volesse ritornar da quel misfatto.
Nella stalla sua odorosa ritornare ancora, indietro. 
Nella sua casetta spoglia, ma consueta, e cara, e grata. 
Nel suo spazio, un’altra volta. 
In quel suo cantuccio, dove, aspettando ancora un po’, fieno e pacche accetterebbe, e sgridate, qualche volta, ché il padrone suo abbisogna di sentirsi meno bestia di lui giovane puledro...
***
– Ah? Chiddìci?!? Come? Signora..? Őh..! Oh Cristoddivino! Kiè che c’hai? Vedi che io sono nervoso! Che ti pare? Che ti hai messo in testa? Cheffà, scherziamo col fuoco? E se poi ’ni ’bbruciamo? Come ’cià purtàmu ’sta notizia ’a casa? 
***
Nella mente affaticata del cavallo ora prostrato balenar certo dovette l’idea che, dopo una qualche bastonata sulla groppa, elargita con un legno, anche strano come quello, – pur temibile però, per la rara lucentezza del metallo sulla cima – dopo un paio di nottate di dolore e fiaccatura, – che non piace invero mai a nessun signor puledro che rispetti sua natura – nuova e altra erba fiorente sfiorerebbe col musetto – divertente e a volte serio! – altri dolci frutti, e bacche, la sua lingua assaggerebbe, altre scorrazzate pazze si godrebbe tutto fiero nel recinto dietro dove sta il frantoio secolare...
***
– Mangiami! Curri, curri supra ’sta campagna, beddu cavaddu! Scàssimi a legnàte, dimmi che sono la tua schiava! Allìppiti ’na st’agnùni! Abbìvirati ’nta ’sta ’ggebbia! Sàziti, beddu putru! Fammi quarchi ’ddannu! Lassimi struppiata! 
***
... E le gran cacate che si farebbe a cuor leggero – nella stalla no, perché, Murruzzièddu vanitoso, raffinato ed elegante, nel suo letto vuol soltanto fresco aroma di buon fieno, muri salsi e fine biada – nei quadrivî in modo che sappia ognun del suo passaggio; e sgroppate in faccia ai fessi, alla luna e ai moscerini – perché mai non s’arrischiasse, uomo cosa o vegetale, col solletico a irritarlo, tranne il dónno suo un po’ strambo, e tarchiato un poco assai... – presto ancora sparerebbe, ad onor del sangue vivo, ricco di ferro e d’argento... 
***
Ora, Patonsio, che nel sangue la sudditanza recava scritta ad una voce alla quale disobbedire non è possibile – per quante deroghe la coscienza si sforzi di suggerire – e che per indole e amor proprî, delle sollecitazioni verso la generica equinità era in grado di recepire unicamente la sezione riguardante le eventuali affinità – e soltanto quelle di natura fisica, per di più – con l’asino bardotto condotto dal poco di odor di casa che gli dura nel naso e dalla rimembranza alla stalla come vincolanti bussola e calamita…
***
Ma si sa fin toppo bene, – come disse il gran Bacone – quando vuolsi soddisfare desiderio di vendetta ed oramai è già deciso il sacrifizio d’innocente (sol perché questi è indifeso), molto facile è allora raccattare ramoscelli in cospicua quantità da ogni bosco presso cui s’aggirò il malcapitato e allestirgli un grande rogo dove poi sacrificarlo: il padrone s’avanzava, con quel legno orrendo e brutto, e la faccia di rabbioso come mai l’aveva visto, ed un fremito gli corse nella pelle raggricciata: s’impaurì, ebbe uno scarto – certo male interpretato da Peppino invelenito di paura e vano orgoglio – e gli zoccoli gli oppose, quasi l’animo a frenargli, a riparo delle botte pronte a piover sulla schiena… 
***
…incendiato nelle viscere zuppe d’igneo carburante, essiccato nelle membra ingorde, da vivo ardore combusto nel muso paonazzo, liofilizzato nel cervello abbrutito, già divelta con mani cieche la bardatura e strappati i finimenti, fornì alla giumenta Gina, questa volta, – e in modo inequivocabile – una particolare imitazione – pari pari – pedissequa del summentovato quadrupede, senz’alcuno sforzo nel riprodurre accorati, strazianti ragli in luogo dei convenzionali gemiti di voluttà dell’uomo incapace di distinguere la parte divina e la parte ridicola della propria natura. 
***
... Non riuscì però a schivare, quel destriero in miniatura, quell’abbozzo di cavallo, il fendente rovinoso che una zampa gli tranciò; n’ebbe il gelo nelle ossa, un tremore orripilante che la voce gli spezzò: non potè perciò implorare la pietà al padrone ossesso, che nel braccio maledetto caricato avea oramai altra abietta pugnalata.
Scoccò il colpo quell’infame, bacio ultimo di morte alla bestia prediletta.
Murruzzièddu vide il lampo, percepì un sapore dolce che cresceva nella bocca ma non vide invece il ferro rovistargli nelle carni; poi uno squarcio largo ed osceno fece strada nel suo collo armonioso e “sempre al vento”: l’impietosa scure vile divorò la gola tesa nello spasimo d’orrore. 
Cadde al suolo Murruzzièddu, ma uno sguardo ancora aveva di pietà e disprezzo insieme per la villica ciurmaglia che osservava da vicino il calar definitivo della notte ingrata e fredda, nella ultima giornata della vita del ribelle, generoso mascalzone.
Quello sguardo fece il giro, tutt’intorno alla scoperta delle grida che sparivan, della plebe che fermava ogni gesto ed ogni offesa, del padrone inorridito e del bimbo che in ginocchio scagliò al cielo, come funebre orazione, uno strillo acuto e lungo… 
Poi lo sguardo si fissò verso il cielo azzurro e bello. 
Ma la vista più non c’era.
***
Tutto grondante e stordito, con le fiamme nello stomaco e l’arsura nella gola strappata dalle grida della battaglia appena conclusa con lo sgomento d’una sconfitta, d’un rovinoso annientamento, Patonsio galoppò via, a rotta di collo. 
Via dal luogo del duplice sbaraglio, con l’animo dell’esecutore disperato e folle di un’empia strage che stia per rendersi conto della devastazione mandata inconsapevolmente ad effetto, e, dal rimorso oppresso, cerchi il suicidio come feroce espiazione – efficace lenimento alle lacerazioni cagionate dai morsi insopportabili della coscienza – nelle campagne disperdendosi con la fida lapa, che mansueta l’aveva atteso, senza giudicarlo, ad un ramo attaccata con una corda. 
Sentieri e tracciati gli scorrevano alla vista come in un sogno crudele dal cui vortice non si riesca a spartirsi; per parecchie strade stregate si smarrì e mai più, anche in seguito, ne comprese l’inganno; visse terrificato una parallela esistenza il delirio d’alienato reo, di transfuga braccato dalla giustizia umana e soprannaturale e del genocida per isbaglio, in quella manciata d’ore serotine e notturne, nonostante reminiscenze popolari volessero prestargli scomputo ed abbuono, suggerendogli l’idea di un prezioso virile trofeo, d’un ricco bottino ottenuto dal conquistatore valente; ma sempre quest’idea veniva scoraggiata e atterrata da quella dell’espoliazione proditoria perpetrata dal turpe profanatore di sacri santuarî o dall’infame stupratore d’un intero convitto di venerande vestali, di sante vergini, d’inviolabili innocenti. 
Le tempie parevano voler esplodere per i fiotti di sangue che impetuosi accorrevano – fiumi ormai privi d’ogni argine, incontenibili demoni sturati – con l’evidente e legittima finalità di recidere il filo di quella sordida esistenza pervertita.
***
Senza saper come e per quali sconosciute vie, nel medio declinar della notte scellerata, ripervenne sul luogo del misfatto, e tutti i particolari gli si riaffacciarono nella mente scombussolata: Patonsio il razziatore li rinumerava per provarsi che non li aveva sognati, tuttavia la fantasticheria vellicando d’averli vissuti nell’immaginazione – esaltata – solamente.
Poi però spiava, a distanza prudente pressappoco, i finestroni della masseria e capiva, – sperando quasi d’intravvedere sana e salva l’adorabile figura che già in cuor suo (pur manchevole dei necessari titoli e anzianità) amava – che in quel rustico castello viveva davvero una stupenda principessa in carne – (ah… che carne!) – ed ossa – (oh… che ossa!) – e che lui, il miserabile, il cane lercio, l’immondo disonesto, l’aveva infangata, contaminata, disonorata, profanata, ancorché sollecitato a ciò. 
Ma, ripercorrendo con la mente affaticata gli istanti fatidici, che sollecitazione era mai quella proveniente da una persona priva di sensi? Incapace di determinarsi intenzionalmente, visto – e Patò l’aveva imparato eccome! – il potenziale allucinogeno di quella droga liquida? Non fu – si diceva amareggiato – come prendere a timpulati uno legato, che non si può difendere? Bell’impresa! Che cosa da “uomini”! Che spirtìzza! « Affrùntiti cosu tìntu! » – si disse, più rancoroso verso la sorte indegna – che lo umiliava dispensandogli nutrimento virtuale, contraffatto, in luogo di pane vero, lievitato naturalmente – che verso se stesso, che compassionava di tutt’affetto.
Poco alla volta scorse sopra il suo cranio, ben oltre il ricovero della lapa – che ronfando nel sonno dei puri faceva le fusa – prima due o tre stelle, poi dieci o venti, indi, moderatamente confortato da quelle, che gli rivolgevano, pur lontane e comprese in una gelida calma, uno sguardo eterno e canzonatorio, forse per la prima volta avvertì il sentimento malinconico, severo, commosso e indulgente a un tempo, che la giovinezza stava volando via misurando l’ultima rincorsa e il balzo finale in quello spazio campestre asperso d’un sentor di terra umida, d’eucalipto e meliloti, d’animali e di villani – indizio affettuoso e triste di patria; infine rammentando – chissà da dove – che
« Chistu è ’u paisi d’o scunfuortu:
o cadi acqua o tira ventu o sona ’a muortu… »
perse il conto delle stelle ed esausto svenne nei sedili in similplastica, in ampi squarci sventrati dal sole, dall’usura e dal sudor negli anni mantecato.
***
Patonsio non aveva neanche mai pensato troppo, prima di quella notte, – e che bisogno c’era? – alle nuvole.
Svegliatosi, invece, le vide belle, ricche e generose come buoni angeli librarsi argentee a sottili strati, le vide bianche, delicate e pacifiche come anime di neonati che veleggiavano ridendo, come benedizione e dono di Dio. 
Tristi e sognanti, le vide, in pallide altezze come malinconici anacoreti, librarsi fra il cielo e la terra come belle similitudini dell’umana nostalgia, all’uno e all’altra appartenenti, eterno simbolo del viaggiare, della ricerca, del desiderio e della nostalgia, e n’ebbe conforto e gioco agli occhi.
Ma era fanciullo, ignorante, così le vide, e non per questo comprese del tutto il suo pensiero e guardandole non sapeva che anche lui passerebbe attraverso la vita come una nuvola, dappertutto migrando forestiero sospeso fra il tempo e l’eternità.
***
Giorni passarono.
Appariva smargiasso. Anche da solo, sembrava voler dire, lasciar intendere, far capire che era uomo di mondo, che lunga, molto lunga, la sapeva, che la vita e le donne conosceva... poi in compagnia... ah!
Se un bicchierino gli offrivano, dispensava non richiesti consigli, anche nei momenti più inopportuni.
La gente pensava che i suoi atteggiamenti fossero dettati da nuova prosopopea figliata da una probabile frequentazione con donnine di malaffare di Modica o di Scicli.
La sera si sceglieva un posto in penombra e si sedeva a riflettere, cercando di raggiungere con la navicella dell’immaginazione la figura di lei, e allora un dolce brivido segreto percorreva la sua anima infantile.
Ben presto, però, quei momenti di gioia si davano alla fuga lasciando luogo al turbamento, procurandogli amaro dolore.
Credeva di poter comprendere quanto gli fosse estranea quella femmina, quanto poco o nulla lo conoscesse o potrebbe chiedere di lui.
Si rendeva conto insomma che la bella visione dei suoi sogni solamente un furto era, un furto alla beata persona di colei.
Quando questo preciso e tormentoso sentimento lo colpiva, proprio allora innanzi a sé vedeva la sua immagine, così viva e vera, che il cuore gli era invaso da un’onda oscura, e calda, che gli faceva male fin nelle serpentine più lontane.
Ritornava, di giorno, quell’onda, durante un’ora di minchiate o in mezzo a una discussione con altri manzi. Allora chiudeva gli occhi, si lasciava penzolare in un tiepido abisso, come impiccato, o annichilito e felice; finché si ridestava a un richiamo del branco o ad una calcagnata dello zio nello stomaco, – che quand’era ripieno la calcagnata era più efficace – e si allontanava correndo all’aperto allargando le braccia dispiegate a raggiunger bastante portanza per decollare e volare 
via, 
via, 
lontano, 
nel cielo blu 
dove il mondo lo vedi 
sorridendo, 
divertito, 
con stupore trasognato; 
via, 
trasportato dalle nuvole 
orlate d’oro e di carminio, 
dove tutto è bello 
e pieno di colori 
a stracatafottere, 
dove tutte le cose appaiono pervase dalla luce e dal respiro, 
dove i tetti sono più rossi, 
il cielo più azzurro 
e le vacche più marròn.
Poi però, a volte, una cabrata non riusciva. E precipitava giù.
Quanto più eran belle e stupefacenti tutte le cose che in volo vedeva e godeva, tanto più gli parevan lontane ed estranee, poiché non v’avea parte, egli, il reietto; lui, l’escluso; esso, il “coso”, e ne era fuori, non gli appartenevano.
Gravi cupezze ritrovavano la via alla sua gola e lo mordevano: « Capace che se io morirei ora, in questo preciso momento, » – pensava – « idda manco lo viene a sapere... nessuno ce lo va a dire..! Manco una tinta lacrima ci potrebbe uscire da quegli occhi di fata! »
***
Si arrivò al giorno di San Romualdo. 
Una festa campagnola, in onore di don Peppino Maccefìcu che compiva gli anni, era la sorpresa che il festeggiato non avrebbe dovuto scoprire sino all’annuncio ufficiale, promulgato nel tardo pomeriggio dalla signora Gina e dagli altri familiari, sicché gran lavoro di preparativi pullulava in masseria. 
Peppino, però, il quale aveva il pallino di esercitare sempre un’attenzione costante su tutto ciò che avveniva nel proprio piccolo ecosistema, aveva intuito da certi indizî di euforia maliziosetta, da furbeschi cenni di sottinteso che vedeva sfarfallarsi intorno, – nonostante le mille forzate precauzioni – che nella pignata qualcosa stava bollendo, e anche se capiva che non dovesse trattarsi di cosa a danno suo, pure non voleva che sotto il naso gliela facessero, sicché – con una certa avvedutezza – indagò, e presto si fece persuaso che nell’aria c’era odor di schitìcchio. Ecco perché, quando ricevette Patonsio in missione nuova per conto dello zio, disse in modo da esser ben ascoltato:
– O Patò, non ti pare macari a ’tia che c’è ciàuru di festino? Io penso che qua oggi i picciuòtti vònu fari aqquitrìniu... tu’che dici? 
–’Ròn Pippì, e non è che kà sièmu’ bàbbi... eh! 
– Ragghiùni n’hai Patò,’i facièmu, i bàbbi, ma akkà i picciuòtti l’avissiru a sapìri che’bàbbi nun cinnè... Quindi, ora tu ’u sai che fai? Ammuòviti akkà che ta ’viri macari tu’rò’barcuni cù’ mia... ti piàce? 
Non ci fu più bisogno quindi d’altri sotterfugi, e nella generale bonaria, gioviale riprovazione della pedante vigilanza di Maccefìcu, cui non sfuggirebbe manco una mosca che vola, l’aurora dell’imminente baldoria poté finalmente sorgere in tutta la sua fracassona giocondità: angurie volarono nel pozzo, fiaccole fiorirono nei sentieri, tavolini danzarono per aria e tavoloni doppiavan dietro il paso-doble, gaie tovaglie a colorati quadrettoni su vi planarono, seguendo il ritmo della musica in cui piroettavano cestoni di frutta variamente decorata, scacce e cacciagione, sughi sapienti di maiale e cavatièddi, màccu e lòlli ’kè favi, impanate e teste di turco, prelibati insaccati, turciniùna, e fritture, e soffritture, cuddurèdda e pagnoccate, fiori e pappagnuòccoli di crema e di ricotta, biscotti e cassatine, dolci, torte e tortigli e cucciddàte e pasturièddi, milìddi e cicirièddi e mustazzuòla, cubàita e giuggiulèna e ’mpanatìgghi e firrincuòzzi, “geli” di gelsomino e cannella, e pasticci, e pani “scolpiti” a mò di barbe, bastoni e corone di santi popolari, istoriati di sacri episodi e pagane amenità; bottiglie e capaci(-ssime) damigiane sfilarono in un magico corteo, sedie e panche di varia foggia e misura volteggiarono: un’incantata coreografia degna del miglior apprendista stregone invasato comandava la teoria di cibi e suppellettili in volo, sicché Patonsio non potè esimersi dal salutare la visione della girandola affatturante con la delicata e stupefatta espressione:
– Mìiinciùna ka ti criàu..! 
***
Quando intorno si placò, 
nella luce del tramonto 
tenue e fatta di sospiri, 
– che sui tetti e sulle pietre, 
sugli spiazzi e nelle macchie 
riversava un qual lucore 
d’assopito purgatorio – 
il prodigio ballerino 
della festa apparecchiata, 
cose uomini e pietanze 
si disposero al convito, 
piano piano rallentando 
gesti, frasi, movimenti, 
sinché giunse alfin l’istante 
in cui il tempo si fermò.
Per un attimo soltanto,
come se per una foto
– bianconera nostalgia –
s’arrestasse tutto quanto,
ed ognuno sorridesse
nella posa un po’ irreale,
colta quasi a tradimento
dalla macchina da presa
predisposta dal buon Dio.
Ma non più di uno scatto. 
Forse due, a dire troppo, 
ché le immagini sospese 
dei ricordi d’altri tempi 
mal si prestano davvero 
alle copie, ai duplicati, 
anzi spesso accade invero 
che quell’una originale 
poi si perda, per ventura, 
e nei diarî personali, 
negli albi dedicati, 
sol rimanga 
– unica traccia – 
quella forma immateriale
– invisibile allo sguardo – 
dello spazio ch’essa prese, 
fuoco fatuo di memoria, 
dagherrotipo dell’anima, 
istantanea d’un passato 
– spodestato dal presente (spesso un po’ cafone e ottuso) – 
che mai più ritornerà...
***
Gina molto s’affaccendò nel coordinare ogni particolare che potesse contribuire alla riuscita della festicciuola campagnola; ordini a destra e a manca distribuì seria e divertita; trasferì sedili e pietanze, in bell’ordine disponendoli; esigette instancabile collaborazione e servizî, – rimproveri non lesinando ai sottoposti (laddove riteneva) – numerò le seggiole nuove ne richiese; più di tutti si diede d’attorno: pareva la vera festeggiata che ancor l’abito non indosserebbe se non è a posto ogni minuzia, benché in presenza dei parenti e dei convitati, tutti apostrofandoli e redarguendoli prima di mutarsi magicamente nella più dolce e remissiva ospite che immaginar si possa.
Brillavano le fiaccole nei sentieri ad indicare i camminamenti; imperversava grasso e rossastro, tizianesco, un tramonto cotto nel vapore di stoppie percosse ed invisibili pulviscoli agricoli, selvatiche fronde bisbigliavano di straforo come nascosti folletti insonnoliti; l’aria, di mollezza affettata, seco trascinava l’aire d’importanza del tempo – disabitato – del mito e del ricordo d’altri sogni sereni; si sarebbe intuito che l’isola espirasse flebile nel dormiveglia, spandendo da quel suo polmone lento il soffio negligente di vecchia, maestosa, inciprignita matrona viziata d’eccessi.
***
– Certo che lei, signora, le sape organizzare benissimamente, le cose, ah, signora Gì..? – disse Patò slittando presso la padrona del suo cuoricino butirroso (e rancido d’insonne attesa concitata) cullando la speranza d’ingaggiare un ritaglio di corrispondenza con l’irraggiungibile dea dell’amore e dello struggimento insieme.
– Niente di speciale, Signor Patonsio… – quella rispose, secca, telegrafica.
– Ah no! Lei è speciale, eh, Signora Gina… eh… ce lo dico io che la conosco la robba buona! – avanzò con destrezza corta e malfatta quel figlio d’un dio secondario, irretito dalla pensata che la bella adesso gli parlerebbe, l’alito edenico guidando insino alle orecchie della bestia.
– A me pare che lei fa confusione – lo incenerì – e bisogna fare attenzione a non farne, invece, perché si prendono cantonate grandi… ma belle grandi, eh..!
La tossina entrò subito in circolazione.
Patonsio non riuscì a vedere il suo volto trasformarsi orribilmente – come sotto le mani d’uno sbrigativo torturatore – ma riconobbe dentro il torso l’aggressione d’una “cosa” sconosciuta che gli lacerava celermente le budella: era infatti (lui non poteva saperlo) un gatto inferocito che cercava di liberarsi a colpi d’artiglio del sacco impaniante.
Fuggì ululando nella notte assassina, e squarciando la volta celeste con atroci bestemmie in lingue ormai sconosciute nell’epoche moderne non si ricordò della lapa legata a un albero lasciata a dolersi da sola.
***
Chi per anni sia vissuto rinserrato tra le campagne e la marina non può dimenticare la notte in cui per la prima volta si trovò le costellazioni sterminate sopra il capo e un orizzonte illimitato davanti agli occhi, congestionati dal troppo sangue affluito. Già durante la salita Patonsio si era meravigliato di conoscere le prominenze che tante volte aveva visto dal basso. Ora, soggiogato dal momento tragico, vide a un tratto con timore folgorante l’immensità che addosso gli piombava: dunque così ampia era la sua terra! La masseria laggiù sperduta non era che un puntolino chiaro; cocuzzoli che vicinissimi parevano dal fondovalle erano invece fra loro distanti ore ed ore di cammino disperato – nessuno (soprattutto equipaggiato con una barca di tal fatta: non un’oncia di zavorra, neppure quella necessaria a mantenerlo in equilibrio) si spinge a così gran distanza come chi non sa dove sta andando. 
Allora cominciò ad intuire che soltanto ad occhi socchiusi aveva visto il mondo, senza mai del tutto aprirli, e che lassù le stelle malandrine potevano spiccare un balzo e cadere, e che potevano succedere cose grandi delle quali nel giaciglio della sua tana isolata non arrivava il sentore più lieve. 
E però c’era dentro Patò qualcosa… qualche cosa… che simile all’ago tremante della bussola aspirava a quelle lontananze con inconsapevoli vaghezze, onde soltanto allora avrebbe potuto comprendere per intero la bellezza e la malinconia delle nuvole, nel vedere verso quali smisurati spazi esse viaggiavano… ma, Patò, stizzoso buttero di forti lape, nel suo foglio di precetto teneva scritto in maiuscoletto che quelle spume candide e irrequiete erano “cose” che avevano a che fare soprattutto con la sete dei campi e con la fabbrica dei fanghi, per cui, da quel perfetto spettacolo, essenzialmente, la percezione tenace che ne ricavò fu quella delle zannate che la rabbia e la mesta delusione nel suo stomaco accogliente infliggevano, e rammentò che una volta, in una festa di paese, aveva sentito il protagonista di una scalcagnata recita, tale invertito Rodolfo in arte Foffo –ribattezzato Fonfelmo ’u pùrpu dai suoi sardonici concittadini – scagliare quest’invettiva – allora incomprensibilmente buffa – sull’auditorio screanzato: «Che cosa è la viiita se non un gioco dannatamente spietaaato..?».
***
La notte si sarebbe fatta calda: lo scirocco arrivava col suo rombo profondo – preceduto da freschi venti contrarii – avvertito ore prima dagli uomini, dalle donne, dalle montagne, dalla selvaggina e dal bestiame, mentre imparziale e silenzioso si preparava a tuonare con la risacca ostinata di un mare d’inchiostro nero contro l’arenile fumante di spruzzi, e il paesaggio voleva rannicchiarsi come un gregge impaurito.
Patonsio ritornò, furtivo e circospetto, verso la masseria per riprendersi la lapa. Vide già a distanza la femmina Gina seduta su un panchetto che dormiva col capo riverso sulle braccia conserte sul tavolo, ingombro dei sopravanzi della festa.
Le folate di scirocco caldo stordiscono, tolgono il respiro.
La febbre sciroccale – dolce, intorpidente – ruba il sonno e con le sue carezze stimola i sensi, illanguidendoli.
Si disse Patonsio: 
– Io ora mi riprendo la lapa mia e me ne vado a casa, ché già abbiamo fatto assai! 
Ma quella femmina del destino, scotendo il capo come una bestia malata cui nel petto affannoso un guizzo di follia ancor tremi e minacci, lo scorse, lo individuò, lo fulminò con la fiamma d’uno sguardo carico di supplichevole stordimento e di sofferenza, e una volta ancora, lo irretì:
– Vieni, prendimi le carni... lasciami i segni... ah! Sono una disonesta... aah... fammi sèntiri ’u fuocu ’na facci e ’ne ’uràzza... aah... vèni kà beddu sceccu ’ri trappitu... sàzimi, abbìvirimi, ’ràmmi ’u battesimu scunsacràtu... ah, beddu putru scicchìgnu... 
La dolce febbre sciroccale è strana e deliziosa, annunzia che narcisi, primule e rami di mandorlo sono rifioriti. Essa può ben riempire un’infanzia – o una vita intera – spiegandosi nel linguaggio incomparabile della natura come mai da labbra umane escirà. Chi tale idioma abbia inteso nell’infanzia, per tutta la vita lo riconosce – tremendo e forte – e al fascino suo più non sfugge. Nato come Patonsio tra la marina e la campagna strinata, quand’anche un uomo per anni si dedichi alle cose della filosofia o della storia, – che non era proprio il caso di Patò – e cerchi di dimenticare invece le cose della natura e della carne, se ode un giorno lo scirocco e un sospiro caldo che dalla costiera risalga per le mulattiere all’entroterra, nel petto gli vibra un ansimo, e il pensiero suo a Dio e alla Morte corre.
Così è.
Così fu.
***
Tornò Patonsio il giorno dopo la razzia seconda. Per portare bei pomodori: la scusa era bella e buona.
– Ah, signõora, – disse a Gina tutto copiato e mascolino – guardi, guardi qua che porto: sono meglio della carne... ah?
– Non c’è motivo che si disturbi per l’avvenire signor Patonsio, qua davvero non ci manca niente e di queste cose ne abbiamo da regalare. Anzi, se se li riporta indietro mi fa un favore, ché non so dove metterli. 
Gesù!
Sprofondarono i monti che da lontano, tutt’intorno, vigilavano la valle e un’immensa piana di verde nulla ed un inconsistente, anonimo paesaggio si fece largo, per ogni dove avanzando e inondando. Un’inquietudine, una tristezza angosciata ghermì Patò anche ora daccapo in fuga: avvertì come d’essere condannato a trascinarsi per suoli inospitali e uguali, a perdere irremissibilmente la sua regione e il diritto di cittadinanza nel suo paese. 
Gli sembrava di vedere sempre innanzi a sé il viso di Gina, fine, ma così estraneo, freddo, ignaro di lui, che il dolore e l’amarezza gli toglievano il fiato. Vedeva scivolar via dai finestrini della sua fida “Ronzinanta” le contrade amene e pulite, le macchie incantate e beffeggianti, le strade che correvano spensieratamente scherzando coi mari e i fiumiciattoli, con i ponticelli e le case in rovina, con i piccoli paesi e i borghi che uno appresso all’altro s’infilano sì che par di scorrere un solo paese pieno di vita e d’immodesta boria malinconica; vedeva la gente che saliva e scendeva, che parlava, rideva, salutava, fumava e scherzava allegra e disinvolta… mentre lui, grave polledrino sconsolato, stava muto, accasciato e ostile. 
S’accorse ad un tratto che di paesi non ne traversava più; le case eran dileguate, il panorama diventato aspro. Saliva tra boschi insospettabili, sempre più isolati. Si moltiplicavano le cime, i canaloni si inseguivano, le distanze sognavano le distanze. Più vasta e arrogante si faceva la solitudine, più intrinseco il silenzio, più selvaggio il panorama. Patonsio fu solo fra cielo e montagne.
Sentì di non trovarsi più a casa sua, – strappato per sempre alle sue campagne – di non potersi mai più mostrare divertente, naturale e sereno come i compaesani. Costoro si farebbero sempre beffe di lui, uno d’essi svellerebbe il fiore custodito da Gina, gli taglierebbe la strada, gli farebbe lo sgambetto. «Bastardo e pezzo di fango!» – rifletté Patonsio, – geloso e avido del fiore di cui sopra – nauseato, sdegnato di ritrovarsi a vedere come la volgare realtà facesse valere i suoi sordidi diritti, a gran brani divorando tutta la ricca spensieratezza di cui egli era capiente.
***
Dopo qualche settimana, periodo in cui s’era ben guardato di ritrovarsi nella contrada del Macceficu, Patonsio si spinse un giorno dalle parti del fiume, cosa non straordinaria per il fatto che il panorama regala all’escursionista una piacevole, confortante vista, ravvivata dai mormorii silvestri più cattivanti che la natura del sito sa congegnare: è un eterno concerto di trilli argentini e di scrosci vivaci che s’inseguono e si sopraffanno l’un l’altro come angelicati bimbetti che giuochino a affondarsi vicendevolmente dentro una vasca incantata.
Fumarsi una sigaretta “tra uomini”, in quello scenario semi-prodigioso, ecco il virile proposito scelto da Patò, con l’unica compagnia della lapa affezionata e d’un rimasuglio d’acredine nell’animo contristato dalle avventure ultime, non ancor uscite del tutto di mente. 
Sonnecchiava la lapa, con una lampada accesa e una fulminata, il fiume versava miti borbogli, i folletti selvatici si sfogavano con alcune innocue pernacchie all’indirizzo del nostro cavaliere dall’ombre rotonde con qualche macchia e qualche paura, quando una scena inattesa, distraendolo nel momento in cui il tizzone della cicca raggiungeva le dita esulcerandole, lo costrinse a battere violentemente il capo sulla lamiera del tettuccio, fruttando spicciamente, a questo, una nuova metallica sagoma, un buco novello alla gommapiuma del sedile, e una pralinatura di sanguinolenta granulosità rugginosa al cranio del suindicato cavaliere. 
La quale scena, era la seguente:
Una fiammante Fiat abarth 850 rossa arrivò d’improvviso a pochi metri di distanza dalla tana dove Patonsio respirava avidamente la sua cicca. E fin qui niente di eccezionale: avveniva talvolta che qualche coppietta in incognito si spingesse fin là a sparpagliare sospiri o ragli – a seconda del grado di istruzione. 
Ma quando la portiera si aprì, in simultanea con la craniata di Patonsio, discesero nell’ordine, prima un bel giovanotto moro, ben messo e recante lo stampiglio della salute in corpo, poi… la splendida Gina, che effuse dal suo vestitino a fiori una fragranza di florida primavera sino alle froge incredule del testimone occultato dai fogliami, il quale fremette unitamente alla lapa, cui sfuggì per la sorpresa un lampeggiamento di fanale abbagliante.
Chi se lo sarebbe aspettato? Addirittura il giovane offerse una sigaretta a Gina… e quella se la prese! Non solo! La fumò tranquillamente! E la sapeva fumare! Segno lampante che non era la prima volta. 
(Al lettore che non avesse immediatamente ravvisato l’eccentricità del comportamento, sarà utile aver contezza del fatto che in un reame in cui l’onorabilità dei mariti era – soprattutto – proporzionale all’occlusione dei varchi vaginali delle mogli e inversamente proporzionale al grado di “piacere”, di “godimento”, di “disinvoltura” – generaliter – raggiunto dalle medesime, poteva ben destare perplessità una siffatta ‘impudente’ spregiudicatezza).
Non appena Patonsio si riprese dal trauma duplice a danno della zucca e della sua farcitura, potè finalmente intendere quasi tutte le parole dell’inedita coppia, trasportate da una brezza favorevole:
– Ma perché – chiedeva il fusto – glie lo hai detto a tuo marito?
– Colpa del vino… sai come sono fatta.
Patonsio, discosto ma non troppo, bolliva di collera: 
– «Ô Disonesta lurda! » – schiumando e traboccando fiele – «allora ce l’hai per vizio! Sei buttana nelle ossa!»
– Quando bevo un poco, lo sai, non ho più controllo… divento sincera, premurosa, …divento più…
– «Diventi più buttana di quello che sei!» – inveiva Patò avvelenato.
– …sensibile … e riesco a sentire, a vedere, a dire, a fare quello che da “normale” non mi riesce; non so nascondere niente. Solo in quei momenti sono “vera”…
– « Sì, una vera scuffata! »
– È una cosa che mi fa soffrire, – continuò la donna – soltanto da ubriaca riesco a vedere le cose come sono veramente, non come appaiono. Leggo con chiarezza nei sentimenti e nei pensieri degli altri, condivido le sensazioni e vedo fino in fondo la bellezza oppure la tristezza che si nasconde nel cuore di una persona, e perfino negli animali… è come se solo in quello stato io potessi entrare in contatto con l’intima essenza di chi mi sta intorno. Da sobria, niente. Avverto solo quello che si può vedere di fuori. Solo le apparenze, che sono spesso bugiarde. È difficile da capire anche per me. Io sono capace di amare, di provare vere emozioni soltanto quando bevo. Com’è strana la natura, vero?
– Ma che bisogno c’era di dirgli che mi sono fidanzato con la figlia di Maluttièmpu? Tuo marito non lo può vedere, a quello!
– « ? »
– A parte che già s’era venuto a sapere, e poi, tanto deve piacere a te, la tua zita, non suo padre a Peppino!
– «Cheffà, non sei più buttana?» – s’interrogò Patonsio, principiando a confondersi.
– E però tuo marito, siccome sono il fratello più piccolo, non si priva di farmi sempre cazziate, e che è mio padre?
– « Gioia mia, non sei buttana più!»
– Lo sai com’è. Ti vuole bene, a modo suo. Si preoccupa per te.
– Sisì, si preoccupa, si preoccupa, e intanto sempre mi dice parole… 
***
Patonsio si ritirò da quell’esperienza quasi rinfrancato, per un verso, ma in seguito sempre più disturbato da un pensiero che piano piano s’era fatto strada nella sua mente. 
Dapprima lo rimuginò confusamente, poi cominciò a penetrare il segreto che lo aveva fatto tanto tribolare: quella donna, anche se nello spazio di fugaci attimi, lo aveva amato… ma aveva amato l’anima integra, primitiva, semplice di lui… non il suo involucro. In altre parole, aveva amato la sua anima e non il suo corpo. La sua intimità, non la sua fisicità. 
Aveva, quindi, quella stravagante, amato Patonsio come uomo, come essere, e non come oggetto.
Il che, per una persona tutta d’un pezzo, non è tollerabile.
– « ’Sta scimunita pazza…» – qualche volta s’attardò fievolmente a pensare.
Non ci andò più. Mai più.
Rimosse.


PEL DI LUPO E LA CARRIOLA

 

Pel di lupo e la carriola 

(Romanza triste e cinica un po’:
andantino, andante moderato, allegretto, larghetto, allegro moderato, allegro con brio)


ATTO PRIMO 

(Andantino)

Il mattino ha l’oro in bocca! 
L’oro in bocca c’ha il mattino? Che espressione assai curiosa! 
Ma sarà poi vero ciò?
Par di sì. Almeno a dirla secondando l’impressione di color, che – mica pochi! – una tal formulazione utilizzano per darsi indennizzo quotidiano (di sospetta compiacenza) d’apprestar se stessi e gli altri, con le prime luci già, alle pene d’ogni dì. 
Per talaltri, invece questo spicchio di giornata può (: è tutt’altro appagamento), sorvolato esser da lungi, con le pari ali del sonnellin ristoratore, che gradito strappa via un gustoso pegno lieto – riciclabile a piacere – alle grevi strapazzate delle ore ancora da subentrare e poi svanir 
San codesti, normalmente, che il castigo rimandato non sarà, per questo stesso, amnistiato, annichilito; tuttavia, la voluttà di scacciar per breve tratto – se non altro, perlomeno – la grigiastra realtà (cosiddetta) “vera” e dura, in favor di quella piena (e policroma vieppiù) del più serio cosmo ideale – quel nei sogni confinato – è per essi, un sensual bacio, rubacchiato – ad abundantiam – alle labbra confortanti d’Amaltea divin nutrice 
Tali labbra affatturanti – si dirà, per farla breve – eran premio ricorrente cui s’aggraticciava saldo, e con gusto prelibato, il Signor Pietro Ditrè, che abituato a disertare il talàmo coniugale una mezza ma abbondante (invidiabile) dozzina di nottate a settimana, predisposto avea quel furbo una vecchia sua carriola – rimorchiata a viva forza di bicipiti e tricipiti (non da meno i quadricì ) da un devoto amico caro – a esercizio d’ingegnoso mezzo di trasporto proprio, del qual mai volle privarsi, con lo scopo dignitoso di portare indietro a casa il suo corpo provvisorio, mentre quello astrale e lieve volteggiava ognor frullato dai più densi fumi tardi dell’alcolica euforia.
La Signora Giuseppina, congrua moglie del Ditrè, religiosa e contrariata dai costumi del consorte, nei mattini crisostòmi, lo aspettava sulla porta della loro abitazion, attrezzata d’un capace cannocchiale da marina (che indagasse l’orizzonte alla cerca di quel lauto nipotastro d’Epicuro orbitante per le volte e gli spaziî cilestrini – ed è ovvio, manco a dirlo, del suo fido cariolante), come pure di una pila di pesante vasellame (piatti, tazze, sottocoppe e terraglie raccattate) e in aggiunta oggetti variî (suppellettili: a rinforzo) – a portata di man sciolta – efficaci, a suo criterio, alle cure più appropriate, contro l’infernal barbarie d’etilismo marital. 
– Disonesto cosa vile! Disgraziato e delinquente! – novendiava allor la donna, carrellando sul paesaggio col binocolo provetto – Mascalzone farabutto!
E guatava in lontananza, la carriola prevedendo, ma non v’era ancora là, traccia di “merce avariata” che spiccasse nella linea di confin fra cielo e terra, quind’inutile dogana lei restava al limitar della notte che svaniva e del dì sopravveniente. 
Ritornava indi allo specchio della camera da letto: ci vedeva un mare morto, verticale e in fondo al quale una vita assai fasulla rivangava senza sosta ciò che non esiste punto, e il varcare quella soglia, comportava pure che cert’ignoti oscuri spettri guadagnassero l’ingresso, ed in nome dei tormenti ch’è possibile contare, si dolevan con passione, effondendo tuttavia svaporate grida fioche, non udibili ai più
***
(Andante moderato)

Uno aurico mattino – alto il sole, quasi al Zenith, i suoi raggi dardeggiava, tollerabili di poco agl’indigeni del loco – la Signora Giuseppina, pregustava l’euforia di ricever, meglio armata dell’usuale suo apparato, il marito trasportato dal fedele amico a traino. 
Era lì, com’ebbra al sole, pronta alla carneficina.
Fé il suo accesso la carriola, trascinata dal fidato, che in sordina, susurrando, svolse questa sua orazion: 
– Non lo svegli, amica cara: egli dorme come un putto! Come un angiolo innocente lui colloquia coi suoi pari. Ô beato cherubino, fortunata creatura! Io mi provo, nel guardarlo, una dolce invidia… sa?
***
(Allegretto)

(Sulle punte dei suoi piedi se n’andò il fedel compagno; non voleva, quel devoto, fare il menomo romor – che gran cosa l’amicizia! Che squisito sodalizio! Tanto più nel caso ancora dove affine sentimento, copre, attenua e infine occulta l’eventuale correità. Sperimentano (ed in tanti!) tal legame pervicace, poi t’arriva la questura: pone fine al sentimento.
Ma da sempre l’uomo sa come vincere gl’intoppi: mai verrà l’infausto giorno che l’« Amor » non « omnia vincit » … ).
***
(Larghetto)

Già stendevansi le ombre come fosser onde rotte adagiate sulla riva, di potenza non più viva, d’ascendente ormai in declino su terreno inerte e pigro. 
Senza troppo illanguidirsi alla tenera vision del puttin che fa la nanna, la Signora Giuseppina – che il suon di quelle “onde”, non di molto sopportava, reputandole uno scherno dirizzato al suo amor proprio – il partito divisò, di scagliargli, prima, contro, una raffica di piatti (e qualch’altro arnese ancor, tanto per scaldare un po’ i tessuti muscolari, incupita, già che c’era, dalla notte e dal rancore); poi, giumenta ribellata (visto ch’è ora di biada), a nitrir si mise irata (strano caso dell’umor!). 
– Umhf! Mahh! Gnah! Shhh! Uhm! Bah! Sssciò! – bofonchiò l’angelo santo, eruttando e macinando ancor più squisitamente dei suoi sogni il farinaccio da percóter anco un tot 
– Gnah? Shhh? Sssciò! Ma io ti disosso! Mascalzone farabutto, ladro delle carni mie! – la virago incalzò tosto, raffermata sempre più nell’idea che le maniere dolci non fossero più sufficienti né opportune, e che il passaggio risoluto a quelle forti e ben decise si dovesse imporre infine, qual precetto contrattuale
– E perbacco! E che schifío! – gli strillò infastidito, ridestandosi uno poco, la “celeste intelligenza” – Non si può dormire mica, in santa pace, insomma, qui! Ma che modi sono questi? E che siamo, tra selvaggi? Ma io dico! No, ma dico! Quest’è proprio un’indecenza! Tutto ciò deve cambiar!
– Ora è questa l’indecenza? – rimbombò la tenutaria del “divino messaggero” – Cambiar tu vuoi? E che cosa? Ma ti cambio io, e ben presto, connotati, ô baccalà! Ricompongo io i tuoi tratti, farabutto criminal! Io non voglio più un minuto, sotto l’alcol conservar, un tal feto ripugnante di meschina razza grama! 
(Qual pignatta che sul fuoco, ne trabocchi il contenuto, quella prese a singhiozzare, aspergendo poi d’intorno salse stille in quantità: come soffia pressappoco la balena – o giù di là…).
– Vorrà dire allora che… – spiegò Pietro, là per là, impettito e fiero alquanto, come re di negra schiatta spodestato dal suo trono – noi domani partiremo! Io ti dico, e ben ti sta!
– Noi domani partiremo? Partiremo chi? E perché? E per dove, partiremo, alla fin dei conti, bèh?
– Basta, piccola curiosa! Io così mi sono espresso! Or ti dico, e non lo nego, quindi tientelo per te!

***
(Egli:) « È arrivata ormai premurache io trovi soluzionpresta, rapida e sicuraall’attuale situazion.Questa folle creaturanon disdegna il rompimentodelle mie saccocce, e giuradi raggiungere il momentodi vendetta acerba chetosto giunga addosso a me!Io mi sento un uomo persocui si stringe (sorte avara!)pur financo l’universoqual galera e poi qual bara…Aa mee aa mee, la vendetta addosso a me! » (Ella:) « Non è vita più da farequesta misera perchésol mi tocca desinarecon il fiele in bocca, chéquesto tristo lestofanteha deciso di lasciaread ogn’ora ed ogn’istantedomicilio famigliare.Vi son certi disgraziaticui è negato il mero amorson tra questi, ahimé, i poetied i saggi, che dolor! Ma è giunta l’ora chela vendetta è qui per me!Qui per mee, qui per meela vendetta infine c’è! » 
(Amenduni – ad una voce:) « Aa mee, aa mee,più rimediî non ce n’è… » (Cala, temporaneamente, la tela, ma, da questo momento in poi, il prezzo del petrolio, mai più…).

***

ATTO SECONDO

(Allegro moderato)

L’intenzione di don Pietro, già da tempo coltivata, era quella (atteso che, era quegli, in fondo – eh sì… – un gran sentimentalone) di recuperar l’affetto – e perduta stima forse – della moglie rimischiando, della sorte lor… le carte, nuovamente con un viaggio per il mar mediterraneo, che infondesse nuova linfa in quei cuori inariditi: lui colà le avrebbe infatti riparlato ancor d’amore; e le avrebbe detto inoltre le parole sciocche che suonerebbero stupende. 
Eran essi, anche tutt’ora, molto giovani, del resto, e non troppo – per fortuna – dalla vita danneggiati: lui per man l’avrebbe presa, indicandole il tramonto fra il Mar Nero e il Mar di Marmara – ciò quand’anche si trovasser fra le acque al largo di Favignana o Lampedusa (quel che vale, no..? si sa, è il pensiero… l’intenzione), ed i termini adoprando più commossi e furfantelli; e le avrebbe sospirato su un orecchio, da vicino, quel dell’alce il caldo alito che acclamare sta per sé sua compagna prediletta, mentre i primi infatuanti venti tepidi d’autunno là avrebbero gemuto, mugolato nelle orecchie di entrambi conquistati. 
Così presero il piroscafo che l’avrebbe accompagnati verso nuova floridezza, e lo preser come quando ci si accomoda a commetter un peccato di lussuria – o (per dar concreta idea:) – , come quando si degusta un gelato succulento, dando modo di pensar che un peccato si commetta.
Era, a tali prospettive, il Ditrè tanto eccitato, che i suoi magri pettorali – si sarebbe quasi detto – s’espanderono all’incirca d’un centimetro più grossi; Giuseppina sua signora, tanto s’era entusiasmata – cose simili intuendo – che i suoi (i… pettorali… ) aumentarono, in effetti, d’un buon paio di centimetri, nuovo circolo ottenendo.
Ragazzini eran tornati ( – per esporla bella schietta!). 
S’era loro inoculata una brama trasgressiva, come un farmaco benefico che però procuri prima, febbriciattola vibrante. 
S’era lui portato appresso, nel baule suo da viaggio, la famosa blusa bianca che gli dava un’aria vaga di malgascio seduttore; e lei pure, biancheria che in passati giorni addietro le avean conferito un richiamo di sicuro (adescante) allettamento.
Malandrino Eros intanto, il divino traditore, nascondevasi or dietro il castello della prora, ora dietro il giardinetto della poppa od il pozzetto, o tra il cassero ed il ponte, gli oblò oppur la stiva, preparato per scoccare le punture acuminate il cui chimico principio si inserisce in deretano per far ciclo d’emivita nel cervel direttamente… – certo indizio di presenza di quel dio capricciosetto fu che Pietro dié in acconto alla moglie Giuseppina uno sguardo lungo e fatuo che non fu restituito, ma il piacere ebb’egli poi, di vedere che, girata (sottomessa alla molecola nel suo sangue subentrata), ella già arrossiva vinta…
***
(Egli:) « È arrivato ormai il momentoche io sappia dire, e fare,dimostrarle quel che sento,la mia donna soggiogare.Questa tenera creaturanon disdegna il sentimentoe mi par cosa sicura:se mi favorisce il ventodel mio fato, il caso c’èch’io invada il suo steccatoe l’avvinghi stretta a me!Io non son ancor spacciato:ché mi sento un uom diversoche pervien (sorte propizia!),a godere l’universocome un luogo di delizia …Aa mee aa mee, or l’amore, presto a me! » (Ella:) « Se potessi cominciarea riamare mio maritocrederei io di toccareanco il cielo con un dito:quest’allegro lestofanteha deciso di tornareai miei occhi interessantee ai misfatti rimediare.Vi son certe fortunatecui è concesso il vero amorson tra queste, io, invidiateda ciascun: tutti colorcioè che a vuotocorron dietro alla venturasol sprecando il loro fiatonella triste congiuntura…Aa mee aa mee, or l’amore, presto a me! » 
(Amenduni – ad una voce:) « Aa mee, aa mee,
or l’amore, presto a me! »

(Cala la tela, le sigarette e le marche da bollo, tuttavia, seguono un trend assai diverso).

***

ATTO TERZO

(Allegro con brio)

E la notte seguì a un giorno in cui la navigazione i due sposi avea lasciato lietamente rilassati, con gli occhi ancora pieni dei colori accesi e intensi del Mediterraneo in fiamme – (dell’aurore e dei tramonti logoranti per la psiche di chi è avvezzo solo al suol); il momento giunse ordunque d’adagiarsi sulle brande, per disciogliere il madore (e salsedine sui corpi) nel cantiere di Morfeo 
Procurava però, il chiuso dell’angusta cabinetta (assegnata ad il riposo dei Ditrè “rifidanzati”), a don Pietro una calura estenuante anzichenò, per il qual motivo scelse di trovar sdraio all’aperto, dove abbandonar le membra inzuppate di sudore. 
Quando ch’ebbe poi trovato una culla alla bisogna, fu sì grata la scoperta, per il caso singolare ch’era questa un’ottomana (pressappoco o giù di lì ) con le ruote, fatta in legno, e dimodochè pareva al Ditrè (contento assai!) la carriola vecchia e cara: quasi un dono del destino, a premiare con un segno positivo e materiale la sua proba scelta attuale d’armistizio coniugal. 
Sopra d’essa si piazzò, e lasciandosi cullare dai bei flutti in movimento, sotto il latteo cielo immane, dolcemente s’ assopì.
Ma di tanto, dolcemente, che arrivar non vide un’onda, gigantesca, spaventosa, di quel tipo proprio che il terror mette nei cuori dei più esperti naviganti.
Aggredì l’Onda improvvisa ed immane la murata del piroscafo dormiente, proiettando via lontano il Ditrè che se la sognava con gli angeli colleghi.
(Non sappiamo se annegò quel beato impenitente, certo che se non lo fece, di sicuro è ancora là…)
L’indomani, alla mattina, la Signora Giuseppina cercò subito il marito.
Lo cercò per tutto intorno, setacciando il bastimento. 
Indagò nell’equipaggio, che però nulla sapeva, e né visto tantomeno.
Quindi:
– Non c’è verso – disse – perde il pelo il lupo, ma, non il vizio certamente. Ha passato quest’infame (una volta nuovamente) questa notte ancora fuori!

(Cala definitivamente la tela, umida di spruzzi marini).

(Il pubblico s’allontana sgomento).



 



“Nelle famiglie tarate 
nasce un discendente 
che si vota alla verità 
e che si perde cercandola.”
(Patonsio – sic et simpliciter!) 

Dove s’ottiene contezza di come Carmine ebbe ad apprendere il turbamento dell’onore

( Prologo minimo, e pur necessario: )

(VOCE NARRANTE:)

Sonvi genealogie i cui componenti – chi più, chi meno, chi, affatto – sanno il prepotente, dispotico carico della propria gravosa distinzione rispetto agli “altri ”. 
Individui tali, incolpevoli primieramente, e segnati dipoi per il resto del tragitto terreno, son allevati in maniera che respirino, immediatamente dopo il ceffone primo d’ammissione al vasto mondo, un’aria – com’un aire, del resto – diseguale da quella che i comuni cristiani “han l’impudenza d’assorbire nei lor polmoni plebei ”. 
Carmine crebbe, sin dall’età più verde, con la stabile compagnia d’inflessibili precetti – ragionevoli ora sì, ora meno – in ordine alla esigente disparità della personal provenienza, sicché in circostanze molteplici ebbe movente a chiedersi cosa, il padre perinsigne o il nonno venerabile, avrebbero deciso o rifiutato al posto suo.
(Né è da dirsi che pronta risposta gli venne sovente in aiuto…). 
(Cionondimeno).

Illustri nascite

(Dove si rivela di che schiatta il nostro procedesse)

Quel lettore non digiuno d’opere concepite all’epoca della classicità latina, potrebbe rinvenire, in certi luoghi del trattato ciceroniano dedicato alla natura degli dei, frammenti di antichissime leggende, a sentenza delle quali il favoloso celeste Olimpo conserva, nella bagagliera dei costumi di celebrata memorabilità, quelli appartenenti a più Giovi: Creta se ne gloria d’uno, Olimpia un altro ne rivendica, e parimenti non v’era greca città di una qualche importanza che non abbia vantato il suo particolare Giove. 
Dello stuolo di replicanti del divino bellimbusto, uno solo se ne trattenne, cui tutte le imprese dei singoli omonimi furono attribuite, e ciò basta a spiegare il numero prodigioso d’amorose fortune di quel dio raccontate.
Una assai somigliante mescolanza si produsse a carico di Manfredo de’ Canegiari, personaggio la cui fama, adorna di miti, e da racconti popolari espansa, di molto s’avvicina, quand’anche in difetto di genesi ultraterrene, all’irrequieto padre degli dei. Difatti le province dell’isola che racchiuse lo scenario del nostro racconto, s’inorgogliscono di aver posseduto ognuna il suo Manfredo, con la propria particolare leggenda.
Con il passare del tempo, poi, le leggende tutte si sono fuse in una sola. 
Avvenga che, in grazia dell’attenzione che il benevolo lettore volesse concedergli, il dimesso compito del raccoglitore di queste memorie, acquisti dignità e pregio.
***
Il barone Don Ottiero de’ Canegiari, uno dei più ragguardevoli fra quanti riputati signori si trovassero nella contea di *, d’illustre nascita, aveva fornito prova di non aver dissipato il capitale di degnità e coraggio, garantito in lascito dagli avi, durante la guerra che avrebbe preso denominazione di “grande” per le sue empie e inusitate proporzioni. Dopo gl’inidonei negoziati volti a comporre le reciproche insofferenze tra i popoli europei, pagato di vaste cicatrici e di severe esperienze, il temperante e quasi intero Ottiero esplorò la strada di ritorno verso *. 
Abbellito perfino, e reso più gagliardo dalle sue ferite, guadagnò la preferenza, in mezzo a uno scelto drappello di pretendenti, di una fanciulla ben accreditata per virtù e per casato.
Da quel corretto matrimonio nacque, prima, un pittoresco giovanotto, che premiò l’energico signore con la lusinga che il suo antico maggiorasco non passerebbe ad un ramo collaterale, e, pochi anni dopo, un minuto ma singolare fantolino, personaggio primus inter pares di questa veridica istoria, che il padre e la madre vezzeggiarono quasi come fosse l’unico e vero epigono di tanto nome ed altrettale cospicuità di valori e pregi ereditarî.
Ancora cucciolo, era Manfredino padrone poco meno che assoluto delle proprie pronte azioni, e nell’avito palazzetto nessuno avrebbe imbastito l’arditezza di contraddirlo, a meno di incorrere in argomentati ma perentori responsi: 
– Non riconosco la necessità – diceva ai parenti larghi d’inutili ammonimenti – di modificare punto la mia condotta, giacché mi fu insegnato che uno dei primi doveri di un gentiluomo è quello di meritarsi la responsabilità delle proprie azioni.
Oppure:
– Per qual motivo mi si prescrive di non correre e sudare, posto che alla mia età non vi è cosa altrettanto naturale e salutare?
Che obiettare ad un contegnoso omarino di otto anni che nondimeno decorosamente cavava estrosi ma ragionati orditi dal prezioso violino paterno?
La madre, al pari di lei, lo esigeva pio; il padre, com’era lui, lo voleva valoroso. Quella, a suon di carezze dolciumi e pennini prodigiosi, conduceva il bimbo a imparar rosari, litanie, e tutte le preghiere d’obbligo e non d’obbligo; lo scortava, sino ai sogni beati, leggendogli i vangeli in forma d’istruttiva favoletta. 
Dal canto suo, il barone, procurava che il rampollo apprendesse le epopee cavalleresche dei Cid, degli Orlandi, degli Amadigi di Gaula e di tutti gli impavidi virtuosi di cappe fioretti spade o moschetti; gli narrava le pene del malinconico Hidalgo della Mancha, gli raccomandava lo schifo verso i Gani di Maganza e i traditori d’uomini e di patrie; lo istigava a formarsi nel lancio del giavellotto, nel tiro con l’arco, pur non trascurando gli affondi da schermidore contro un fantoccio moresco – e forse infedele – che aveva fatto collocare in fondo al giardino.
Il frutto visibile di tanto zelo parentale si palesava nel fervore dei giuochi, dove: 
– Muori, cane immondo..! – promulgava con gesto ispirato, affondando – appassionatamente! – nelle reni dello sventurato compagno di gherminelle una artigianale daga di legno, poi riparando: 
– Il Signore che dispensa il premio od il castigo, non io, suo umile soldato, braccio armato della sua imperscrutabile volontà, giudichi la tua miseria!
***
Mette conto in questa sede di far soltanto uno spiccio cenno al mitico personaggio, ritratto in un’istantanea della verde età, – malgrado il pregio dell’originalità (dell’unicità anzi), della vita quasi tutta – per il fatto che il nobiluomo ripeté l’esempio paterno fabbricando in età adulta – non da solo, per amor del vero (ma a lui va certo ascritta l’influenza migliore) – un erede meno leggendario, singolare altrettanto tuttavia, dell’avventura terrena del quale l’autore si darà il vantaggio di raccontarne alcuni episodi.
Quest’erede ben presto ebbe un nome: Carmine.
Fin quando Manfredo soggiornò su questa terra, – e anche dopo, per lungo tempo – Carmine veniva più facilmente indicato come “il figlio di Manfredo de’ Canegiari” da tutti coloro che conoscevano o piuttosto si vantavano di conoscere il padre, – cosa che avveniva anche a dispetto di evidenti distanze generazionali – ma ciò, lungi dal disturbare il giovanotto, gli riusciva gradito invece, e lusinghiero, e se un rammarico l’affliggeva, era quello di somigliar troppo poco al padre. Nei rari momenti di sfogo per tale dispiacere diceva infatti agl’intimissimi:
– N’avessi preso un pelo..! 
(Cosa che però non impedisce al lettore d’addentrarsi senz’altro, con un poderoso salto nella corsa degli eventi, nella conoscenza dell’episodio che l’Autore non si perita di titolare:)

Discesa agl’inferi

Si addormentò raggranellando frammenti d’immagini e sbriciolate sensazioni derivanti da quanto aveva visto e patito durante il giorno, e squarci e passaggi fantastici sognò, che nulla avevano – almeno in apparenza – a che vedere con il temibile infortunio automobilistico occorsogli: non è infrequente infatti che gli istanti di trepidazione e allarme, come pure certi stati d’animo suscitati da una minaccia, da un pericolo, da un astratto repentaglio, si ripresentino vivi ed efficaci in tempi rinviati, differiti dall’istante in cui il frangente sopraggiunse.
Le sapienti litanie e le industriose geremiadi dei ricoverati accanto al suo letto lo risvegliarono verso le quattro del mattino. 
Tosto che, schiudendo un poco gli occhi, da stordito torpore impeciati, intorno a sé conobbe la fossa dei perduti, dei maledetti da Dio, dei castigati in cui era stato rovesciato da due avvinazzati Caronti nosocomiali in biancorancido completino da ciabattanti malandrini legittimati. 
Fu questo – approssimato per (non lieve) difetto – lo spettacolo introduttivo trattenuto nelle retine frastornate del diminuito Carmine, al momento stipato nella corsia di primo stoccaggio infelici : taluni dannati concordemente solfeggiavano appassionate lamentazioni a cappella in un mirabil’alterno affiatamento di simmetriche fughe e contrappunti emozionanti; cert’altri, navigati solisti dell’afflizione, armonizzavansi magnificamente, in una sol cadenza, con interpreti – consumati altrettanto – del più sfarzoso virtuosismo strumentale ottenibile con romantici tutori e vezzose stampelle, sonore ingessature, magniloquenti ritmiche flatulenze, enfatici clisteri – ordinari: in gomma, o personalizzati: in cotenna di porco, variati pellami, metallo e caucciù – , aurei pappagalli ondeggianti, barocche vesciche artificiali, pale, flebo, sonde sondini specilli “farfalle” e suon di man con elle ; talaltri, ormeggiati in date immemorabili, dalle medesime sopraccitate dimentiche canaglie traghettatrici, ai margini sudici del corridoio – e del consesso umano, d’altronde (affatto consimili a larve non del tutto dipartite dai cadaveri abbandonati presso sperdute solfatare) – , di tanto in tanto gettavano lugubri richiami, supplichevoli implorazioni, tutto scandendo con un pervadente sordo frinir di raccapriccianti bestemmie e maledizioni rimasticate; alcuni ancora salmodiavano ricche novene d’improperi all’indirizzo d’una generica spuria etnia di epigoni ippocratei e delle loro adulterine consorti, mentre solerti parenti s’ingegnavano di riposizionare, maldestri e ossessivi, tortuosi cateteri ed altre cannule invasive, ignorati costoro, come gli altri tutti, nei i secoli anteriori e per quelli a venire, da un mastodontico cerbero dormiente, in forma di suora baffuta, che ronfava, messa a giacere con le zampe posteriori troppo spalancate, su d’una seggiola troppo piccina, e che faceva le fusa vellicandosi un inguine evidentemente irsutissimo, giusta l’esuberante gibbosità. 
Qualcheduno infine, 
come l’eternità: 
invisibile,
scordato da Dio e dagli uomini 
col vetro d’antica sabbia nello sguardo, 
inerte fissava
il vuoto infinito
del limbo spaurito,
dell’ infernal sito
attorno di sé.
(CORO: – Del resto non c’è
né uomo né spirto
colà che non v’abbia
orrore inaudito
del limbo spaurito,
dell’ infernal sito
attorno di sé).

***
Carmine – per non saper né leggere, né scrivere – si riaddormentò. Non si permettè di sognare. 
Per un qualche riguardo alla gravezza del luogo.
(Questo tuttavia non gli ottenne, più tardi, di consentirsi risparmio de:)

La visita

(Nel tardo mattino, 
mentr’egli dormiva, 
lontano da casa, e da ogni conforto, 
un par d’inservienti lo issarono lesti su lercia lettiga, 
mortal palanchino provvisto di ruote, 
di sangue rappreso, 
di peli vetusti, 
di lezzo di piscio negletto nel tempo, 
svanito in quel luogo 
com’ogni altra cosa 
passata per là).
(CORO: – Passata per là…
Passata per là… ).
***
– Allõra, allõra, – insinuò a Carmine un figuro tristo (che inverosimilmente doveva esemplificare qualcosa come la parodia di un simulato medico), allorché fu depositato in uno stambugio greve d’odor di vernice, di alcali, d’alcaloidi, d’alcaptoni , d’anioni e vieppiù d’altri cationi , e, certo, di spettri transeunti avidi di rivalsa e di vendetta – Checcè, checcè? 
– In che senso? – rispose Carmine, innegabilmente fiducioso nel sussidio della filosofia, della ponderazione e della ricerca del vero.
– Checcè, checcè? Checcè? – ad libitum, colui.
– Intende in senso cronachistico, in senso morale, in senso utopistico? … come posso venirle incontro? – si cautelava il nostro, non potendo fondatamente indovinare dottorali competenze in quello sconosciuto sciatto e disadorno.
– No, no, checcè, checcè… cos’abbiamo, cos’abbiamo… noi… cosa accusiamo… và? – intensificò l’ambiguo emulato terapeuta. 
« Vediamo se interpreto correttamente… » – ragionò Carmine – «[1]: … quest’uomo pretende da me delle informazioni. Egli è generico, indeterminato, teorico, polivalente forse». 
« [2]: Rammento d’essere stato portato in un ospedale… o così credo, almeno».
« [1. (sub articulo)1]: Nulla vieta quindi che costui sia un malato di nervi, un depresso, un prostrato, e rivolga a me fraterna richiesta di sodalizio e comunanza di spirito in questa sfortunata contingenza».
Siffatto generoso slancio offrì pertanto a quel che riteneva provvisorio compagno di rovescio: 
– Eh, la vita, caro amico… la vita..! Chi può dire, propriamente, d’averne penetrato i reconditi segreti? – e gli parve giudizioso postillar’in un sospiro: 
– Mmàhh! 
(CORO: – Triste sospiro
dolente sospiro
accorato sospiro
ma insomma,
tant’è ). 
L’esimio chirurgo, date le circostanze, di qui sospettò che la botta ben più d’un arto avesse offeso, e si fece pensieroso, meditabondo. Cupo.
Principiò a scrutare il cranio di Carmine come chi un oscuro segreto investighi. 
Lo fissò nondimeno, al modo di chi sia ad un passo – ancor però da completare – dalla soluzione finale, dalla rivelazione ultima. 
Poi esclamò:
– “Colpo di frusta!” “Colpo di frusta!” Per forza!
Stimò, Carmine, talmente progredito il tracollo nervoso di quello che reputava un sodale di sventura, che non esitò a dichiarare:
– Egregio amico! Mettiamo al bando la violenza dai nostri cuori! Soltanto con l’operosa collaborazione, con il reciproco sostegno, e non certo con l’inimicizia, risolveremo i nostri problemi! Su! Stringiamoci la mano, ché siamo tutti, in fede mia, su una stessa barca, alla fin fine!
Il medico gli destinò un’occhiata sconcertata e, senza proferir verbo, uscì.
***
N’entrò un nuovo (taumaturgo).
Strascicando scarpe un tempo – presumibilmente – guarnite di tacchi, di vernice (forse) e d’ipotizzabili lacci – v’erano, del resto, straziati, gli occhielli antichi – il guaritore attuale, d’un subito portòssi ad imporre le mani sulla testa di Carmine, ora un tantinello preoccupato. Più gli dava infatti l’impressione d’un lacero poeta da strada, d’un itinerante cantastorie sbracato e male in arnese, anziché d’un professionista laureato.
Qualcos’ebbe però quegli a percepire, poiché il volto dell’infortunato eroe nostro comprese tra le mani, il suo insidiosamente accostando, e da distanza infinitesima ormai, ne fissava la fronte e gli occhi belli e profondi. 
Carminello, smoderata quotando l’incalescente adiacenza delle lor quattro – all’incirca – complessive labbra, dai turchi sodomiti intesosi assediato (o d’altra tuttalmeno transilvana impalatrice progenie), si determinò ad ostruire la gittata del fatal turpe amplesso con cui già si presentiva violato, e proruppe risentito:
– Ah no! minchia! A ’mmìa ’a cugghiuniàta mi piàce, sì, ma no scippàlla ’nno cùlu! Capisco la sofferenza, l’emarginazione, la difformità di parrocchie e tutto il resto, ma no che ora ’n’ama ’gghittàri tutti ’nta rricchiunàme ’ppi ’fforza! Senz’offesa, ma veramente, senz’offesa, ma ora io me ne vado, ché già abbiamo fatto assai! Ecch’emmòdo è? Eh, Cristo! Va, va, ma veramente..! 
– Ma che è pazzo? – ribatté piccato allora il dottore – che cosa si è messo in testa? Io sono padre di tre figli!
– E lo so, lo so, se ne sentono spesso, di queste cose… poi tutt’in una volta, uno sente “la chiamata ”, “la vocazione ”… com’è che dite… voi..?
– Ma ’cchi cci pàru parrìnu? Talè, talè ’stu ’bbéstia..! 
– A ’mmia lei mi pàre ciùssài parrìnu spugghiatu, mi pàre! – baccagliò Carmine, a questo punto innervosito.
– Ma si stasse fermo… férmo! Ché non lo vede, che c’ha ancora tutti i vetri nella testa? Ma cose, cose di scimunìre con quest’altro sfasato!
Effettivamente, nel capo e sulla fronte del giovane pensatore, permanevano ancora piccoli e medi frantumi del parabrezza, fenduto a cornate il giorno prima, e ragionevol cosa s’imponeva presto e bene d’asportarli.
– Io, per me, – fece il medico rabbonendosi – li leverei… lei che dice?
– Ma sa che le dico? Leviamoli, và!
Trasse allor di saccoccia, lo scienziato, prendendosi briga sommaria di scrollarne rimasugli di tabacco ed altre enigmatiche luride giacenze pilifere, una pinzetta (di cui la metallica origine poteva intuirsi dalle eccedenze d’ossidi idrati) con la quale entusiasticamente imprendette a spulciare nelle scorticature del disgraziato giovinotto.
– Ahi, ahi…
– Ka quàle… 
– Ahi, ahiaia… ahi…
– Marìiiah… Minciàte… 
***
Redento e sfrondato che si riebbe dai cocci visibili, Carmine, nel miserevole bugigattolo una volta di più rimase, da solo, con i compagni sopr’ogni cosa molesti: i suoi pensieri (avrebbe persino potuto – per distrazione – riconoscersi felice, se soltanto avesse ricevuto in dono un bel cuore avaro, strafottente, pitocco, in aggiunta alle sue sostanze, ma, purtroppo, tra queste, faceva peraltro impietoso difetto la dote essenziale: non possedeva neanche un minuzzolo d’anima comune).
L’incomodo presente, la famiglia che nulla sapeva dell’avvenuto, il padre venerato cui nuovo dispiacere darebbe, tutto concorreva ad accrescergli soma sulla coscienza crocifissa, cosa non inconsueta per un fine aguzzino delle proprie carni, sbirro vessatore venuto al mondo dietro già misfatti ineffabili trascinandosi, in un’altra, anteriore vita, consumati: per quanti mediocri in quella presente n’avesse daccapo a perpetrare, i trascorsi gli avrebbero sempre garantito invariati rimorsi, dei quali, comprenderne la provenienza ed il bisogno – signornò – non è dato. 
Sicché, senz’avvedersene, nell’ora presente – quant’era ancor giovine! –, corredato com’era del mutilo orgoglio di credersi forte e superiore ai mali, offendeva purtuttavia il suo coraggio pregando il dolore di mutarsi in assottigliato, decurtato sembiante, talché potesse concordarne, patteggiarne lo scotto, abbuono o detrazione infine ottenerne.
***
Poi nel loculo un terzo fece ingresso, lo quale, senza pôr tempo:
– Avanti! Calàmuni i càusi! Forza ’dduòku! – latrò. 
– E che è vizio? Ma che c’è, la fiera? Che c’è oggi, la “passata”? – si riscosse Carmine, mai del tutto rasserenato in proposito della personal profilassi sfinterica.
– La dobbiamo fare, l’agniziòoone, o non la dobbiamo fare? Àaah? 
Equivocando sulle possibil’accezioni del riconoscimento drammaturgico di persona, o del reperimento di rapporti di lingua e di stile – in sede di lettura critica –, in autori diversi o lontani, lo snervato giovane filosofo (dai recenti accaduti svigorito nel giudizio), preterì quella, empirica vieppiù, che gl’avrebbe indicato la presenza, tra le palme sufficientemente prensili del primate lui antistante, d’un ferale siringone, pistonato a due cilindri, di mucoso limo bruno traboccante:
– Ecchè, ora, la dobbiamo fare?
– Ecchè la vuole fare, il mese che trase? 
Vide allora il marchingegno,
trasalì col deretano,
isbiancò nel viso smorto,
si lassarô a lui le braccia,
cadde vinto sul lettino (« …come morto corpo cade… » )
al sacrificio apparecchiato,
quindi un fiato verso i Lari, i Penati e gl’altri amati
gittò fuora con dispregio, fatalismo e accettazione,
in cui c’era, tutt’intero,
l’anatema di quel forte:
« Vile, tu uccidi un uomo morto! ».
(CORO: – Isbiancò nel viso smorto,
trasalì col deretano
gli provenne il fiato corto
nel veder quel disumano
brutto ceffo malaccorto
con l’arnese nella mano
pronto a fare un nuovo morto). 
L’ago vide le carni. 
Le puntò.
Alfin le morse. 
Dentro v’imbozzimò un’ampolla tumescente, nelle polpe l’incistidò (nelle sue intenzioni, per sempre) – ma in tre mesi (Ah, la Giovinezza..!) andò via tutto.
***
Un quarto, un aculeo seco recando e una cordicella – parvero a Carmine avvilito gli attrezzi con cui i battilana giuntano i materassi – s’avvicendò nel fornetto:
– A ’stu ginocchio, ci dobbiamo dare tre punti. Almeno.
– Diamoli, sangue di Giuda! 
– Io, per me, ce li darei pure così… – disse quello indicando il taglio reso più largo dall’angolatura dell’articolazione piegata – … ma capace che lei magari, alla fine, preferisce addrizzare la gamba. Parliamoci chiaro: io così ci metto meno filo… e pure prima ci sbrighiamo. Cheffà, preferisce?
– Preferisco – rispose Carmine, il quale sebben innocente e digiuno di discipline cliniche e patologiche, da verace isolano ben’intendeva l’atavico assunto che vuol si sia più agevole rinserrare labbri già accostati, che stringere piuttosto bocche spalancate. 
***
(CORO: – Né più altro disse,
invero,
ma tal fitto ragionar
col compagno – lui medesimo –
così assiduo e persistente,
gl’insegnò, definitivo,
che, per quanto reticente,
silenzioso e taciturno,
di restar s’obbligherebbe,
ad ogn’ora riescirebbe
da qualcuno detestato
per il fatto assai seccante
di spiegar compiutamente
– ricca di commenti e glosse,
stando solo là presente –
l’opinione sua discorde,
contrastante con i più.
Tosto dopo un primo assaggio
– l’iniziale conoscenza –
più non resta alcuno, infatti,
che i discorsi del valente
giovanotto non comune
non l’estraneino da sé.
Ma non vale, infin, la pena
di tenere il broncio al mondo,
ché quel duro prepotente
è così maleducato
da scansare beatamente
di degnarsi d’osservare
che un ragazzo raffinato,
nel suo cuor pulito e intatto,
lo detesti saldamente).
***
Alla buon’ora, un quinto specialista, nemmeno entrò nella celletta:
– ’U ’ggèssu, ’u ’ggéssu… ’u ’ggèssu ’ci vòle… ’u ’ggéssu..! Tànu… cosa vìli… fàcci ’u ’ggèssu ’a ’st’autru maravìgghia! 
Due balordi lo presero, in un’altra sala lo portarono, e senza tentennamenti o lungaggini gl’ingessarono il braccio buono – forse obbedendo ai dettami di misteriose scienze mediche tribali, imperscrutabili (certo) per gli sciocchi profani; forse commossi, inteneriti, alla vista delle appariscenti ecchimosi, delle chiassose lividure, degli ematomi solenni presenti nell’altro braccio offeso.
***
Risalita ai superni

Carmine venne portato in uno stanzone dove intanto gnaulavano altre quattro o cinque anime svaporate. Un paio erano accuditi da individui femmine – familiari, con buona prevedibilità, considerato che molto davansi da fare per accrescer la pena dei lor congiunti, tormentandoli con pastine in brodetti fetidi, frutta decomposta, stracotti purulenti d’aborigeno prelievo casalingo –, i rimanenti, da giovani individui maschi – lenoni in fiducia d’eredità – meno solerti nell’opere ma più fervidi nelle pie orazioni – (è intuitivo) a lor profitto. 
Lo sconforto fu tale che l’eroe nostro s’accasciò ed implodette in se stesso. Si assopì.
Sognò di trovarsi su una spiaggia tetra e nera. La foresta fitta e intricata alle sue spalle faceva pervenire grida di belve sconosciute, certo minacciose. Davanti si arrotolavano invece le note furenti d’un mare scuro, sillabato da creste d’onda di color ghiaccio bigio e ferrigno, come cascami d’alluminio sporco o lacere lamiere divelte, che s’accartocciavano crepitando gemiti elettrici: alcune lingue si dipartivano dai flutti cinerini, ramificandosi in dita maligne che pareva volessero ghermirlo mentr’egli arretrava con lesti scarti, puntellandosi su gomiti e talloni, alla maniera d’un crostaceo antropomorfo. 
Aveva, Carmine, un bell’essere coraggioso, ma ciò non impediva che’l sudore gli stillasse copioso dalle tempie, ritmicamente enfiate come le gorge d’uno smisurato batrace: ansava con affanno, sbuffava fiati animosi contro quelle dita, da Dite inviate per condurvelo secoloro; poi, in un baleno: una chiarìa, un far del giorno, un crepuscolo primo, un inizio abbacinante. 
Ancor diffidente aprì gli occhi e vide oro.
Vide infiorescenze biondeggianti, imbevute d’un aroma aguzzo e doloroso. Come di cupressacee bacche stregate, di coccole ammalianti di ginepro nano, di racemi ginestrini Ma non si trovava in campi odorosi né in orti fragranti, bensì su una lettiera – pur sempre ( ! ) odorosa – accanto ad un messaggero celeste, una creatura colà trasmigrata, senza tappe intermedie, dalle liriche dei soavi trovieri stilnovisti
– Chi è là? – stupefece Carmine, da commozione invaso, e da pentimento.
– Caffèlatte… – flautò l’angelo – lo gradisce?
– Gradisco tutto. Tutto. Cristoddivino, se gradisco!
L’angelo prese una tazzona sbreccata da un vassoio e fece deposito, sul viso esterrefatto del recente uomo, d’uno sguardo dentro il quale potevansi distinguere:
1. i singoli cerbiatti che si rincorrevano tra freschi maggesi aspersi della rugiada di borboglianti ruscelletti argentini; 
2. le ondulanti corolle di fiori birichini con cui volubili farfalline policrome si baloccavano leggiadre e argute; 
3. i guizzi evanescenti dei capelli del sole, impigliati nel segreto di fogliami boschivi;
4. l’amabile stormir di lievi fronde nell’istessa fiaba in cui amorosamente guerreggiavano con tralci delicati, anch’essi esperti nelle malie e negl’incanti melodiosi atti ad irretire il viaggiatore sognante al quale mai potesse concedersi il privilegio fin là di smarrirsi.
(CORO: – Corbezzoli… 
DEMIURGO: – Mùti, béstie!)
***
Fugace bilancio dialettico, declamatorio e concionatorio

Nella sua pur breve trasferta terrena, Carmine aveva riempito qualcosa come diecimila pagine formato protocollo tra temi, componimenti e relazioni nell’ambito scolastico, corrispondenze epistolari di varia natura – ivi ovviamente comprese le amorose missive (poco importa, ai fini del calcolo, se recapitate o conservate nello stipo magnanimo del suo prodigo cuore) –, domande d’ammissione a pubblici o privati istituti, scritture annotazioni dissertazioni appunti bozze ricerche trattati studi saggi testi variî; ed aveva parlato – emarginando dal computabile l’ancorché considerevole attività nelle ore di sonno – un restante cumulativo stimabile all’incirca in un paio di decine di migliaia d’ore, contemplando discorsi interi, arringhe, apologie panegirici conversazioni dialoghi disquisizioni colloqui allocuzioni frasi parole interiezioni onomatopee e mono/bisillabe a viva voce emesse. 
Con tali autorevoli trascorsi, nulla consentirebbe pronosticare che, con l’accostarsi dell’angelo – in forma di fanciulla infermiera recante caffellatte e pan tostato (modico, invero) –, egli non avrebbe trovato una qualche idea che fosse enunziabile. 
La vergogna gli rosicò intestini – cosa che pretendeva germogliare in incresciosissimo flusso diarroico di ventre – e carnagione – la quale, dei carminiî tizianeschi, ben pochetto avea di che trarre invidia.
(CORO: – Tutto rosso si fè in viso
non trovando le parole
né discorso pur conciso
per cavar, come si suole,
d’altrui labbro un bel sorriso.
Che disdetta! Che afflizione
pel corretto giovinotto
infiammato d’affezione
e d’amore ormai ben cotto.
Riuscirà ei finalmente
a deporre un fiore almeno
alla fata seducente
sul suo grembo o sul suo seno?
Saprà dir quei motti audaci
che la donna gradirebbe,
ispirarne tosto i baci
e far sì che l’amerebbe?). 
***
Impotentia apud aliquem loquendi

Sebben impellente Carmine avvertisse d’esporre alcunché, una molesta sterilità verbale l’opprimeva serrandogli strozza e meningi innanzitutto. Tutto quel che infatti seppe produrre fu: 
– Qui c’è del caffé, nevvero?
– Eh, sì, caffé.
– E c’è anche latte?
– Sì, certo, il latte.
– E c’è anche il zucchero… pardon, lo zucchro, lo zucchero..?
– Ma sì… lo zucchero…
– Allora è caffellatte…
– Cosa pensava che fosse? – la creatura celeste lo guardò un poco meravigliata, impercettibilmente il capo reclinando, ma con un espressione così dolce e triste – forse compassionevole, pietosa alquanto – ch’era più di quanto l’animuccia tenera di Carmine potesse al momento sopportare, sicché, anche in tal frangente, il meglio che ti seppe cavare, fu un fremito sospiroso, un sussurro contenente tuttalpiù una prima roca imbastitura, una traccia fioca, un archetipo soffocato d’estinto fonema:
– Ahrh…
E qui, quand’anche facesse ricorso alla truce immagine d’una fulminante iniezione letale irrorata nelle venule inanimate dello scoraggiato giovine, non riescirebbe affatto agevole all’Autore rappresentare una – pur adattabile – idea della mortificazione ch’egli si inflisse rendendosi conto che il tema del caffellatte era improrogabilmente esaurito, e che urgeva escogitare una qualche conveniente – e sollecita – riparazione. 
Il Manfredo genitor 
vocò allora in suo pensiero, 
lui volgendo, mentalmente, 
questa supplica accorata:
«Padre mio, sono in mezzo a una strada, che devo fare?»

(CORO: – Non vi fu certo ritardo
di risposta pertinente
impetrata dal gagliardo
Carminello postulante,
e fu chiara, secca e breve
nello stile del paterno
ispirator, com’è che deve
un pedagogo moderno
al figliuolo suo diletto:
mio pupillo, ascolta e impara,
quindi tientelo per detto
se la cosa si fa amara: )

« Figlio mio, levati dalla strada, ché passano le macchine! » 
Questa fu, la lapidaria orazione paterna che Carmine credé di poter ricevere, in virtù di telepatica percezione, nell’intimo suo. 
***
Come qualmente Carmine riuscì a trovare un’altra istanza

Le mani e le braccia della giovane infermiera erano state prese da un modello di squisita fattura, ed erano inoltre articolate a certe spalle, disegnate da un ineffabile artista rinascimentale, che non aveva punto disposto economia d’accuratezza e precisione nel rapportarvi un corpo che avrebbe indotto il più casto impacciato cenobita a tradursi rabbiosamente nel sibarita più concupiscente e libidinoso; apparteneva infatti a questo corpo una orografia pettorale che costringeva i bottoni d’una blusa gentile ad una tal costante e rimarchevole tensione, ch’essi parevan voler dire: 
« Vuoi forse che stracciamo definitivamente gli occhielli? ».
Se Carmine si fosse trovato da solo, con l’Inviato Celeste, in un appartato firmamento arredato d’impalpabili teneri cirri, e poc’altro in aggiunta – a scanso d’inutili distrazioni – , in luogo di quella reggia di cimici, avrebbe detto senza pentimenti:
« Ma, a un bel momento, ô bottoni, fate pure (…ecchecc…àvolo)! ».
Invece si trovava, malgrado la geografiche giocondità anzidescritte, nell’impuro pozzo nero del “Circolo dei Difettati ”, nella pattumiera infetta dell’ “Associazione Amici dell’Acciacco ”, pertanto stimò utile dir soltanto:
– Come ti chiami? – terrificato all’idea che oltre gli scappasse: « Stupenda Creatura! ».
– Assunta, mi chiamo. 
– E da chi? – sospirò d’istinto Carmine il Maldestro, a rischio di rivelare sconsideratamente, ad un più attento orecchio, che avrebbe impreso, con tutto il cuore tutto, inequivocabili – mica era fatto di bachelite, del resto – “assunzioni ” di genere non convenzionale a beneficio – se così può dirsi – del meraviglioso essere, da lui distante la sol misura d’un alito fioco, timoroso. 
– Come? Che signif..?
All’istante il malaccorto giovine percepì la detonazione, nel punto mediano esatto tra le due orecchie, e la conseguenza – istantanea altrettanto – del forte botto fu un intenso rossore del suo volto, a cagion della vergogna grossa, da un lato, della rottura poi dei vasi capillari più epidermici, non meno, dall’altro. 
– No, volevo dire: di chi? Nel senso… della famiglia… il cognome, insomma…
– Ah, Poidomani. 
– Poidomani?
– Assunta Poidomani, sì.
Nel dir questo, la fanciulla abbassò gli occhi al suolo, e rimase così, dolce, immota, allontanata, trasferita altrove – si sarebbe detto – , e minuti piovvero (tra i due sguardi che più non s’incontravano), da non potersi calcolare, senza principio né fine – quantunque compresi nell’arco delle ore che scrosciano indifferenti e stupide su questa terra – , densi di presagi e di rinvii immobilizzati nel gelo, di ansiti e di chimerici differimenti in altri mondi, altri spazi, altri incantesimi imprigionati in gocce d’ambra eternizzanti, sì da non mutar mai. Mai più.
***
Nella bolla che conteneva i due innocenti cuori in fiore si riversò ancora la bruma d’un mutismo imbarazzante, penoso. 
Carmine, allora, prese (con l’arto non ingessato) una mano della splendida fanciulla, e subito avvertì almeno un paio di fitte crudeli: una, acuta, nel petto animoso che non voleva trovar mai pace, né requie, alle rinnovate viste di quel viso celestiale, ma avidamente pascersi, a preferenza, delle amare stille di veleno sublime che un tal supplizio – così dolce e rovente al temp’istesso – a man piena può largire; e un’altra, meno dolorosa e tuttavia di gran disagio, su per il braccio fracassato; ma, infine, la seconda, era cosa di scarso momento, a paragone del castigo che la prima gli provvedeva.
E così daccapo lungamente stettero, durevolmente, ibernati in vita nel letargo fantastico di istanti mai invecchiati, di attimi sconfinati fluiti nella corrente del tempo annullato, annichilito ed inesauribile, immenso ed effimero insieme, come quel che più perdura, nella veglia, di ciò che s’è creduto di sognar nell’altro mondo.
E stettero.
E stettero ancora.
Gocce d’estasi gemevano, vaporando, dalle membra trepidanti.
La realtà, però, etera invidiosa e bastarda, faceva loro le poste, dietro l’angolo.
***
( Epilogo doloroso, anch’esso necessario: ) 

Se nel bel mezzo del delizioso maleficio che Amore s’era incapricciato d’ordire, Assunta Poidomani fosse caduta, di colpo, morta stecchita, quando ritrasse – con la medesima tranquilla e remissiva dolcezza con cui aveva reso inutilizzabile il senno (già bell’e squassato) di Carmine – la sua mano candida, dicendo con una voce rubata ad un soprannaturale cherubo: « Mi scusi… », l’infermo nostro avrebbe avuto l’occasione – o almeno questo, per lunga pezza, estenuandosi, in cuor suo ripeté – di contemplare la discesa dal cielo dei divini confratelli di lei, su un cocchio preparato a raccogliere la sua bell’anima delicata Ed una meditazione consorte, a parzial puntello dell’altra, gli s’affacciò in mente: egli soltanto sarebbe l’unico testimone e padrino, poiché, come per le cose splendidamente eccellenti, come per la poesia inimitabile o l’impareggiabile musica figliata da un autentico stato di grazia, quando esse divengono volgari, popolari (non appena il pubblico comincia a ripeterle o a fischiettarle, tosto che la radio e la tivù se ne impossessano quindi), i prodigi eccelsi (che agli uomini da poco non restino indifferenti, che non siano avversati dagli imbecilli – in una parola – , che non suscitino l’ammirazione e l’ebbrezza sol di pochi), diventano anch’essi, per ciò stesso, insozzati, mediocri, ripugnanti agli spiriti bennati e fini.
***
Assunta, però, non morì al mondo, ma scomparve agli occhi amorosi di Carmine, allontanandosi leggera e blandula alla maniera d’una munifica brezza serotina che, estinguendosi, un poco di frescura lasci in dono, e brama struggente forse più.
Egli rimase a guardarla incantato, paralizzato, mentr’ella si dissolveva – tra vecchi catarrosi e maniaci che ripetevano discorsi grigi e frasi centenarie – , oltre la camerata, come cercasse di trattenere per un attimo in aggiunta un sogno affatturante, quando gli occhi son irrimediabilmente aperti ormai, e dell’incanto più non rimane che il disperso abbaglio, l’indizio illusorio d’un miraggio adescatore.
Non seppe trattenerla.
Non seppe dir nulla.
All’esterno.
Dentro, invece, si diceva: « Bravo, Carminuzzu, ti sei portato come un uomo virtuoso! Ti sei portato come un uomo onesto! Devi essere contento di te stesso! » 

Però, era forse contento di se stesso?

***
CORO: – …
(Gesti scomposti d’incredulità, pose triviali di scetticismo, segnali inequivocabilmente osceni).
DEMIURGO: – A casa, pezzi di fango! Disonesti! Forza! 
(Indica un farabutto): – Pure tu, indegno e cosa vile!
(Poi ne addita un altro): – E tu magari, pane perso! Cosa inutile! Forza!

 


 



Il potere della mente!

Quando cadde la bonaccia sul maremagno dei disordini etilistici in cui s'era voltolata la brigata, si avvertì nella sala dove s’era posto bivacco un senso ondoso di accasciamento, di spossatezza – e sì che aveva tardato a manifestarsi, viste le antecedenti scompostezze prodigate.
Erano convenuti infatti, per l’occasione, i più eminenti rappresentanti dell’università della crapula, la vera crema del bagordo professionale, i campioni invitti nelle specialità della bisboccia singola e a squadre, gl’imbattuti primatisti del baccanale sinfonico, della gozzoviglia solista, nonché i nemici giurati d’ogni affinità alla temperanza e alla costumatezza – tutti partecipi dell’istessa armonia d’affetti e d’intenti – una con i sibariti più volte segnalatisi nell’orgia da camera o nell’abiezione ‘en plein air’.
Ah! Che leggendaria gilda..! Quale illustre consorteria d’ineffabili edonisti! 
***
Con rapido colpo di mano s’impadronì dell’attenzione generale lo stimato Professor Incardona – affettuosamente inteso Testa ’ri pìu – e magnetizzò l’uditorio emanando dalla sua persona queste parole: 
– Ma lo sapete voi, eh? che il caso più curioso che mi sia capitato a proposito di autosuggestione avvenne circa sette o dodici – mi pare – anni fa…(o forse erano cinque?)? Ciònondimeno, non bisogna di certo scavare il pelo nell’uovo, e nemmeno fare come a quello … insomma fu una cosa curiosa assai! Io stesso non ci crederei se non fosse che ci devo credere per forza perchè è così che andò… non so se mi sto sapendo spiegare…
L’uditorio si apprestò a comprendere un pochino meglio il discorso che prometteva meraviglie, lacune manifeste, incongruenze vistose, e ogni sorta di strampalaggini che rendono stuzzicante ogni curiosa amenità.
– Professore, raccontate, raccontate – fecero quasi tutti – non ci fate perdere una virgola, per favore! 
Testa ’ri pìu, cui l’alcolico carburante aveva conferito sicumera e baldanza, raccontò questa storia:
– Ah! Ah! Cose, cose dei turchi! Quella sera si trincò alla “Signore basta più! ”, datosi che stavamo festeggiando la riconciliazione del nostro ospite con la moglie – (ah! brava! bravissima!) signora pregiatissima che s’era inserita d’autorità nella classifica delle più nominate della nostra gloriosa provincia (per motivi che qui non necessita annotare), la quale era ritornata a lui dopo una assenza di un certo triste periodo durante il quale mio fratello (difatti era lui l’ospite) s’era permutato in un strofinaccio inservibile – e nella comitiva era presente pure l’avvocato Vannino *, detto “Nuncinnècciù” per la sua proverbiale implacabilità nel ridursi ai confini del conoscibile con l’abuso di vino e cibarie di preferenza stantìe – poiché, come lui sosteneva, dopo un poco di permanenza all’aria aperta, le vivande “si prendono di sapore”. 
***
(Una istruttiva digressione riguardante quest’illustre personaggio ne delinea sufficientemente alcuni dei suoi “vasti” tratti fisionomici:)

Il grasso avvocato Vannino *, che l’Autore ebbe modo di conoscere personalmente, e che era – può ben esser detto – uno dei capi scarichi più scarichi che si possano incontrare in un isola, era affetto – tra le altre non meno pittoresche – da una triste infermità: non poteva fare venti passi senza essere tormentato da una sete formidabile: tanto che gli capitava di frequente, quando percorreva un tragitto che metteva a sacco quasi tutte le sue risorse, di scolarsi sino a dieci, quindici bicchierini di robusto cognac, temperati da altrettante dosi di fernet, poiché manteneva incrollabile la convinzione che un buon fernet riesce a correggere adeguatamente il retrogusto del cognac, e non avrebbe abbandonato giammai la sua idea neanche in cambio della conquista dello scudetto da parte dell’Internazionale.
Un giorno – un radioso giorno d’estate – incontrò pane per i suoi denti.
Secondo la campana della Chiesa Madre era corretto suonare mezzodì. La temperatura al suolo era incredibilmente alta. Lo sputo di un piazzista di scope-bagnarole-carabattole e materassi modello “Quannu passa ’ron Giuvannìnu si ’ròmme ’na maravìgghia” – durante il suo effimero volo dall’ape – si disseccò prima ancora di toccare terra. Le pietre si lamentavano tacitamente di ciò, mentre un cane bastardino boccheggiava, fiacco e flemmatico, steso a un passo dalla teoria di seggiole più o meno sconnesse del gruppetto di anziani che facevano da licheni distribuiti presso il marciapiede del caffè ‘Mokambo’ nella piazza principale.
Nel bel mezzo della generale disidratazione, quel buon debosciato di leguleio arruffacarte incontrò senza aspettarselo affatto il signor Trummìo, carrozziere titolare di una sfilza altrettanto copiosa di aneddoti autentici – nonchè apocrifi – circolanti sulla sua – non proprio riverita – persona.
Siccome non s’erano veduti da circa dieci anni, – periodo durante il quale il carrozziere aveva vissuto in quel di Torino, ammassando nei suoi mendaci “curricula” più che fantasiose e romanzate avventure a sfondo – prevalentemente – sessuale in cui egli figurava pressoché come un conquistador dei due mondi talvolta, talaltra come castigamatti esperiente d’ogni lussuria e d’ogni godimento carnale – bevvero almeno una trentina di cognacchini e fernettini prima di chiedersi se si fossero stretti la mano. 
– Ma insomma, – fece allora Vannino – oggi si muore dalla calura, eh? 
– Privo diddìo! – Rispose l’altro degnissimo compare – già è più di un’ora che cerco di togliermi la sete e non c’è verso propriamente!
– La stessa cosa mi succede pure a me, – agganciò il buon vecchio Vannino – epperò sono obbligato a confessare che una bella bottiglia di fernet ci ha sempre il suo fascino…
Il carrozziere salutò questa affermazione con una smorfia che voleva ampiamente significare che in nessun paese civile una bottiglia poteva mai avere lo stesso fascino di due, tre, o quattro bottiglie dello stesso liquore. Ma ritornò presto affabile con il suo occasionale compagno di merenda e seguitò: 
– Avvocato, mi dica una roba – Trummìo infatti giudicava indispensabile, ogni tanto, inframmezzare nei discorsi calate e bestemmie in stile “settentrionalese”, per non lasciar mai decadere negli interlocutori, la memoria della sua trasferta torinese – ma lei, cheffà, lei veramente provò mai nella vita la vera sete, una volta?
– La sete? Ah, volete sapere se io ho provato la vera sete… allora, caro mio, visto che mi avete provocato, ve lo dico io com’è il fatto della sete, quella vera, quella impossibbile da combatterci: un giorno che mi trovavo in Calabria in pieno mese di agosto… stavo guidando la macchina mia, modestamente, mi ero perso per via di certe deviazioni e lavori vari che facevano in quelle strade del continente…– Fu prontamente interrotto dal carrozziere, infoiato per l’inaspettata occasione:
– Ah! Aaaah! Per favore non mi dite a me il fatto del continente! Aaah! Per l’amore diddìo! Aaaah! Là veramente sono persone civile e evoluti, no come qua che siamo come le bestie… aaaah! – e ragliava, e bramiva per rafforzare le sue asserzioni – aaah! Io lo so queste cose! Io ci ho stato tant’anni, là, nel nord! Altra vita, altre situazioni, tutta un’altra storia! Qua siamo come i beduini! Là i fìmmini non si fanno tanto priàri …non si stifinìano tutte se un cristiano di sostanza le avvicina! Eh, Cristo divino! Una volta per esempio…
A sua volta fu bloccato da Vannino che riprese la parola: 
– E comunque quella volta ebbi una sete, ma una sete, ma una sete così terribbile, che non ci ho visto più dagli occhi e mi sono bevuto, in un solo fiato, un litro sano di vernice che avevo nella macchina!
– Vernice?
– Fresca.
– Ma acqua non ce n’era proprio?
– Oddìo, acqua, mah! Acqua, e forse c’era… forse ci poteva pure essere… ma che volete… con quella sete, uno non è che pensa a lavarsi!
***
– Ma… chèpper caso, – fu interrotto il brillante professore da un astante – stiamo parlando di Vannino “ ’u piecuru ”, nipote di “facci ’ri scacciùni ”?
– No, quello che dici tu – rispose prontamente con sussiego – è il marito della “Vucca ’ri fàngu ” , mentre questo invece è il nipote di “don Giuvanninu ’u test’e nanu” , sposato con la figlia di Suzza “’a scuncintrata” , hai presente..? quella che si coricava con Tatò “’u purcarìa”, l’amico stretto di Tano “’u ’mmaccatièddu” capito, no? E comunque, vi dico in tutta tranquillità che verso la mezzanotte, il povero Vannino era carico fuori misura di imbriachitudine come un perduto, recitava lamenti funebri in una lingua che nessuno riconosceva, disperdeva enormi goccioloni di sudore putrescente e lacrime di martire immolato, ragione per cui i compagni tutti, compassionevoli, gli travasavano in gola traboccanti razioni di vinello ristoratore, al fine di soccorrere quell’anima, devastata da strazio e indicibile tribolazione …
– Poveretto, – fece un pio, intenerito ai casi di un esempio talmente fulgido di abnegazione alla santa causa della mortificazione delle carni – e soffriva assai assai?
– Ah, per carità diddìo, no, non ne parliamo, – rispose il professore commosso – non vi potrei descrivere… ma come si fa? Cose, cose di non credere! – E al ricordo di tale rimescolamento di sovrabbondanti emozioni gli occhi di amare stille gli si gonfiarono.
Il momento era toccante. Nello stanzone si riversò un’effusione d’incontrollati impulsi di rammarico e mestizia.
***
– Oh, non gli saltò in mente, – così riprese coraggiosamente contezza l’Incardona delle proprie responsabilità – all’improvviso, di spogliarsi nudo e rimestarsi nella fanghiglia che la pioggia battente produceva nel giardino? Noi lo seguivamo preoccupati, ansiosi di contenere il suo tormento entro limiti di sopportabili deturpazioni fisiche… lo agguantavamo in un angolo, e quell’infelice subito sfuggiva alla presa, immelmato com’era; lo incalzavamo gettandogli secchiate d’acqua gelida, costringendolo tra le siepi, e quello, furbo e imbrattato, sgusciava con un agilità che mai si indovinerebbe in un corpo deforme di creatura obesa; cercavamo di serrarlo percuotendolo con le sedie, con le scope, con quanti oggetti potessimo usare a mò di baionetta per ridurlo all’impotenza in una infossatura, e quello, sempre meglio impratichito alla guerriglia, mostro infuriato reso folle dai combattimenti precedenti, ci ricacciava stordendoci con ruggiti potenti, con latrati agghiaccianti, urla orribili che ormai più nulla conservavano di umano. 
Peppino Incardona accusava, a questo punto del suo racconto, un senso di affaticamento, di sconforto, preda dolente forse nella morsa di ricordi gravi, di opprimenti rimorsi. Ma si riscosse ad un tratto, si ridestò, si riportò al presente – si dirà – da un sonno lontano in un mondo remoto, da un torpore avvilito in cui era sprofondato sotto gli sguardi impressionati dell’intera adunanza.
Indi ricominciò la travagliata narrazione:
– Nella sua folle fuga verso un’impossibile salvezza – da se stesso? Dall’orrore che lo estenuava? Mai si poté sapere… – Vannino si precipitò alla volta dell’uscita. 
Fu così che andò a schiantarsi, con meraviglia pari solo al fracasso, contro uno specchio, in gran parte imburrandolo di fango ed altre organiche lordure. Accadde allora qualcosa di indescrivibile: vide la propria immagine, terrifica, riflessa nello specchio! vide la propria figura abbrutita, vide l’orrore della sua esistenza in rovina. Egli si vide!
– «Ah, sei qui porco schifoso!» – gridò rivolgendosi al proprio doppio riflesso – «Qua sei arrivato, schifo depositato sulla terra attraverso i millenni! Pezzo di fango! Catarro purulento della feccia più abbietta! Sterco di cane malato! Cosa inutile e vile!» – noi ci sbalordivamo sempre più in ragione della crescente violenza con cui il miserabile si disprezzava addossandosi le offese più sanguinose che potesse trovare nei recessi della sua memoria stuprata…
– «Talè, talè come t’arriducisti! Vergognati bestia! Mi fai schifo solo a pensarti! Faccia di m…, incrostazione di cesso pubblico! Complimenti, immondizia!» – ci fece paura! 
Alcuni di noi, quelli più sensibili, inorridirono letteralmente nel vedere quel bravo ragazzo assumere le espressioni scellerate di un angelo del male. Poi si domò: attentamente si osservò fissando gli occhi su quelli del sosia soggiogato dentro il cristallo, si guardò di profilo, anzi si guardò da tutti e due i profili, fece qualche passo indietro, ritornò in avanti, indietreggiò ancora ancheggiando, riavanzò con le movenze di un modello dei cataloghi di vestiario di vendita per corrispondenza, concepì qualche piroetta, danzò brevemente elaborando alcuni inverosimili movimenti perversi, mimò oscene manovre, infine, quando raggiunse qualcosa che doveva essere come un orgasmo psichico, si pietrificò. Non capimmo più chi dei due – quello nello specchio o quell’altro, usurato, fuori dello specchio – fosse quello reale, quello giusto… anche perché… mah..! nessuno dei due ci parevano tanto giusti… beh, certo, non è che in quel contesto fossero in molti, i giusti… Ciònondimeno, dopo un tempo che non vi saprei dire con precisione, ma che poteva essere, che so, due minuti, tre minuti, quattro minuti…
– Professore, facciamo che era un tot, che dice? – interruppe un impertinente.
– E vabbè, niente ci fa, facciamo che fu un tempo indeterminabile…
Ma quello di nuovo:
– Professõre, ’na paùra, sìnni futtìssi, l’impottànte è il pensiero..!
E un altro: – Muto, cosa vile, facci raccontare il fattaccio al Professore! 
– Tu sì crastu, e ’cu tìa nun ci cuntrastu! – gli rispose quello.
Un altro ancora: – Oh camurrìa! Tagliatela! E come schifìo si può fare che con voi finisce sempre a frischi e pìrita! 
E via, come per magia, nell’insperata interruzione, spontanea e impaziente, la cagnara esplose, troppo a lungo trattenuta sino ad allora da parte di quelle anime represse dalla curiosità e dall’attenzione.
***
Presto la quiete tornò a regnare, previo un minimo di tafferugli in curva nord, qualche insignificante baruffa in gradinata, un po’ di strepito per sfogo naturale, tre sputi ribelli scoccati dalle retrovie, e così i galantuomini riguadagnarono le prime file al racconto del professor Peppino, il quale fece sua la masnada avvincendola con queste parole: 
– Ma insomma, dopo una breve pausa durante la quale si fulminò letteralmente con lo sguardo, infliggendosi le più feroci mortificazioni, riattaccò: 
– «Disonesto! Mentre tu ti riduci un escremento, tua moglie – anche se è quello che è (povera bestia, cosa ci può fare lei?) – ti aspetta per darti il giusto tormento che meriti; tuo padre e tua madre – che Dio li conservi in salute nella loro prudente ottusaggine – ti pensano e si preoccupano per te; tua nonna – santa donna cui rubi i soldi dal borsellino mentre si fa accompagnare a fare i suoi bisognini – prega la Madonna addolorata e il Cuore di Gesù che sanguina per le tue malefatte; ma ora sentimi bene, carogna! Infame! Vomito di lebbroso consunto..!» – dovevate sentire il tono di straordinaria autorità che avevano le sue parole! – «Ora tu, immondizia, te ne vai di corsa a casa, ti corchi, domani te ne vai a lavorare, come un curnùto, e guai a te se ti vedo toccare un bicchierino! Se ti vedo solo un bitter in mano ti faccio cadere i denti! Forza! Muoviti, cosa vile!» – e spostandosi come fosse in trance dalla fossa di redenzione in cui s’era mortificato in quel modo inattendibile, con passo da sonnambulo, nudo e spalmato di materia untuosa, ma con una inquietante esibizione di dignità se ne andò senza salutare nessuno, neanche l’immagine riflessa, che per qualche istante ancora, prima di dissolversi tra le chiazze di sozzume nello specchio scrutò sbigottita il suo clone allontanarsi nella notte. 
E qui cadde una pausa in cui si sarebbe potuto sentire volare – incredibile a dirsi – una moschina dell’uva troppo matura, se ci fosse stata, durante la quale il professore ingollò qualche sorsata di Fernet alternata con pregevole simmetria ad altrettante generose libagioni di Biancosarti vigoroso, per meglio riannodare il filo della memoria, quindi ripartì con l’edificante apologo: 
– Noi eravamo frastornati per l’imprevisto, ma nei giorni seguenti restammo, in fondo, convinti che si fosse trattato di un’altra delle spassose buffonate di Vannino *. Macchè! Non l’abbiamo più rivisto per un bel pezzo! Dopo alcuni mesi vengo a sapere che aveva per davvero messo la testa a posto, che lavorava con una serietà mai vista, che addirittura i capi dello studio legale dove era impiegato cominciavano a trattarlo in maniera diversa: non lo mandavano più a prendere le sigarette o i caffé per loro conto, non gli affidavano altre umilianti commissioni, non lo carezzavano sulla nuca come si fa, sapete no? con i cagnolini o i minorati, e per farla breve, era riuscito ad operare su di sé un’esperienza magnetica per mezzo della sua immagine riflessa. Si era convinto, in stato d’ipnosi, che era diventato una persona seria, posata, dedita alla famiglia, uno che non beve o fa altre porcherie, uno bravo! Hai capito a Vannino..?
***
Tutti avevano ascoltato la storia con grande interesse. Patonsio, soprattutto, appariva vivamente colpito.
– Ma tu che pensi, professòre, – domandò con espressione tra l’ironico e il guardingo – che il trattamento potrebbe riuscire anche con altre persone? Ah, che dici?
– E perché no? in ogni caso si può sempre fare la prova…
(L’ottimo Incardona sapeva bene che darsi da fare per convincere qualcuno ad allontanarsi dai suoi vizi, da quel che rappresenta una parte molto radicata di sé, equivale a stringergli un laccio intorno alla gola, in altri termini ad aggredirlo, ed è in questo modo che vivrà l’incursione nel suo privatissimo territorio, dal momento che in realtà è davvero imperdonabile voler distruggere qualcuno a modo proprio, impedendogli di distruggersi a modo suo.)
Patonsio si alzò, si diresse risoluto verso uno specchio, e, sorvegliato dagli altri gentlemans nel perplesso agnosticismo unanime, si scoccò terribili, feroci sguardi. Si trattò come l’ultimo dei debosciati colpevolizzandosi per gli eccessi nel bere, nel fumare, nel mangiare, – in realtà si imputò anche altre accuse di pertinenza sessuale trascinato da un sussulto mistificatorio – si minacciò con truce cipiglio, passò in rassegna tutte le ingiurie conosciute in un raggio più vasto dei confini provinciali.
Ora Patonsio si insultava in dialetto, ora in italico, ora in maccheronico, ora in un idioma parlato da una popolazione di cui è ben legittimo il sospetto ch’egli fosse l’unico membro esistente.
Quando esaurì un repertorio pressoché completo, Patonsio uscì difilato senza far motto.
– Mi pare – fece uno della banda– che pure lui fici comu ’u cani ’i Minìu, ca manciàu, vivìu e s’innìu..! 
– Non credo – obiettò un altro – che Patò ci diventa ora avvocato di grido…! 
Un nubifragio di risate si rovesciò costringendo tutti a difendersi come meglio potevano dal soffocamento.
***
Non erano trascorse neanche due settimane dal simposio che Carmine, rincasando, ebbe l’idea di consentirsi un peccatuccio di gola consistente in nocive fritture di rosticceria.
Stava già pregustando la piccola gozzoviglia quando, nell’uscire, scorse Patonsio appeso precariamente al bancone della bottega di vini accanto. Sembrava un tantinello invalidato a causa della difficoltà nell’articolare frasi di lunghezza superiore ai lemmi bisillabi e tronchi, ma ciò non gli impedì di invitare, dopo essersi spento per distrazione la sigaretta nel petto, con garbo quasi squisito l’amico ad un brindisi tra confratelli correi.
– Ma come, Patò..? – stava per interpellarlo Carmine.
– E che vuoi fare, compare Carmine, – riuscì a rispondere, molto affaticato per il forzato rientro dalla terra dell’abdicazione e dell’oblio – non è che quella cosa… quella porcheria… là… la cosa… come si chiama… l’autosungestione… funziona con tutti i caratteri…


 

 

 




Panze, presenze e insipienze

La sera, rimbecillita dalla calura, s’era ormai decisa a stravaccarsi sul terreno dell’anzianotta contea di M*****, dove la cenere dei morti istruiva la polvere delle strade sul da farsi, ed ebbra d’invincibile indolenza, senza neanche rendersene gran conto, lasciava che le ombre, prive dei controlli di rito, si adagiassero al suolo come – svogliate anch’esse – onde stracche. 
Il tramonto, dal canto suo, tanto per non star con le mani in mano (ché, in queste terre, come niente, è facile che gli sparlano dietro pure a lui), aveva insanguinato, come un carnefice invisibile, il litorale non distante, in ultimo spruzzando – per sfregio (s)quasi – una gala arancione al confine tra la fascia di cielo incendiata di violetti schizzati di strisciate verdi e blu, e un mare di petrolio profumato di iodio e vaghi zolfi. Ai lati dello sguardo dell’(eventuale, non indispensabile) osservatore si allargavano e si sdilinquivano lampi di colori già cotti, sfumati dalla mano d’un artista esagitato e fuor dai gangheri parecchio. Tutto quel ben di Dio di stupore visivo si portava dietro come una musica ossessiva e ipnotica, che si ripeteva all’infinito, ma non era identica a quella di un minuto prima.
Dopochè, senza immaginabile preavviso, quell’arte di suoni si placò per lasciar posto a un sassofono attempato, con la voce logora un poco, ma sempre “in gamba”, capace ancor di fiati e sospiri avvincenti.
Da qui in poi, la luna se la pensò d’inghiottire pigramente qualche pipistrello, mentre le stelle cadevano come cicche di sigarette, gettate da spiritelli strafottenti, dalla terrazza celeste. 

(Tuttavia, a dispetto di tutto ciò, il docile lettore sta per esser condotto presso il portone dell’Ospedale Civico di C*****. Entriamovi, quindi, senz’altri pittoreschi indugi, se vogliamo conoscere il fattaccio: è già ora)

Finché lo possiamo
di pergole il succo
allegri beviamo:
godiamo lo scrocco
dacché insudiciamo
con fiero cipiglio
il mondo balordo.
Liquore vermiglio
succhiamo a baluardo
(senz’altro consiglio)
di nostra incoscienza
ch’è bella e ch’è santa
nel darci demenza
bastante ed alquanta
ad ogni occorrenza.
Noi siamo la feccia
dell’orbe terraqueo,
noi siam la corteccia,
l’osceno corteo
che lieto impiastriccia
il cosmo correo:
così avrebber cantato, presumibilmente, due induriti beoni che bivaccavano in una saletta antistante una delle corsie infami – in cui v’erano sconciamente ammassati (novello girone infernale) lungo e mediodegenti assortiti in tutte le taglie e per ogni pervertito gusto – se fossero stati avvezzi a stornellar cavatine, cabalette o consimili ariette, erano invece due qualunque farabutti, ma abbigliati da infermieri.
E veramente, in spregio a qualsiasi decenza o ragionevolezza, tali erano.
La vita è così.
Cionondimeno, trincarono della grossa per tutta la notte, certi che guaderebbero – more solito – il turno loro, indenni traversando sopra gemiti e lamentazioni dei sofferenti, ma al mattino una specie di pernacchia li importunò, malamente scrollandoli dall’ipnosi etilica: era la soneria che li reclamava in servizio. 
Poco dopo, maledicendo Dio e quanti malavveduti imploranti supplicassero soccorso, assistenza, medicazione, cura o scocciature affini al lor passaggio – a certuni non lesinando spintoni villani, triviali versacci a talaltri, sputi e farda catarrosa ad altri ancora – si diressero verso la sala operatoria, seco trascinando un malato, addormentato, su una barella pericolante. Questa usarono come ariete per forzare i battenti martoriati, quindi ne scaricarono l’infermo sul letto chirurgico. L’anestesista col medesimo garbo applicò la maschera ed aprì il rubinetto dell’etere, che col suo fischio di serpente lusingatore regalò al paziente il sorriso che premia in sogno i miracolati, gli alienati estatici, gli inebriati (in generale) e gl’inebetiti d’oppio (in particolare).
Poi – purtroppo – entrò il famoso dottor *, chirurgo.
***
(Vieni lettore, vieni, trattieni lo stomaco, ché ora ti si offre (agra) distrazione, poiché…)

Non distante, in un mondo parallelo a pochi metri in linea d’aria, in una stanzetta sorvegliata dall’esterno da un tristissimo, malriuscito Redentore in legno sbreccato – ma speranzosamente rischiarato da lumicini sempre rinfocolati da mani (privatamente) peccatrici – e da uno sbavazzante cagnone mastigoforo – che ad un esame più approfondito rivelava l’identità di Suor Crocifissa (consumata maîtresse di giovinette perdute a tariffa variabile) – la giovanissima *, viso cupo e fanciullesco, di quelle incaricate di soffrire ogni volta che si può, dava alla luce un cosino fracidiccio che, sotto sguardi avviliti e increduli, tempo dodici ore, prese ad incartapecorirsi al punto che, raggiunta sembianza di un mostriciattolo fossilizzato, si risolse – per il suo stesso bene – di crepare in fretta, senza troppi scrupoli. Senza troppi complimenti. 
Schiattò, in fin dei conti, al modo d’una castagnola inesplosa, che sbuffi un esiguo fumacchietto dalle polveri mollicce. 
(Penoso – et incredibile dictu –, ma l’orecchio aguzzo, proprio nell’attimo in cui il piccolo scherzo di natura si ricongiunse con il suo angelo custode dal risolino malizioso, avrebbe sentito: “Fffssssssshh…”). 
A fianco del suo lettino, due baciapile ipocrite, per maggior gloria di Nostra Signora Martire dello Scoramento e del Flagello Intrinseco, sgranavano rosarî, rugumando come conigli che mangiano l’erbetta.
Per una madre quasi bambina è un brutto inizio. Pessimo inizio. 
Ma per una devastante malattia di nervi, oh, bisogna ammettere, è un inizio eccellente. 
Anzi, sebbene con le donne non si può star mai sicuri di nulla, fu un inizio che ebbe in sé qualcosa di miracoloso. Tant’è vero che in seguito, bellamente trascurando illustri precedenti, “Giovanna la pazza” fu il nome con cui il paese intero riconobbe e salutò la poveretta, cui vennero attribuite facoltà medianiche imprecisabili, ma suscettibili d’approssimazione nelle discipline della lettura delle carte e proiezione del malocchio previa caparra confirmatoria di poche – invero – migliaia di lire. 
***
– Bisturi! – comandò il famoso dottor * (chirurgo di questo paio di stivali ), palpeggiando il ventre sferico del poveretto, disattivato sotto le sue granfie – Bisturi! Forza! Movimento! Ché già ’ni sta scurànnu! 
Un’infermiera grassoccia e zoppa, allora, depose malvolentieri il fotoromanzo con cui stava provvisoriamente dissetando la sua inestinguibile brama di baci – linguacciuti – stampati e trottignò, armata del prescritto stromento, che le era appena servito per la cura delle unghie, verso l’infelice spento sul tavolo, ma non prima – sia detto a suo merito – d’averne sommariamente nettato la punta sul proprio quarto posteriore.
Presto l’epa abbondante fu scoperchiata del poco di tessuto che la fasciava, e il famoso dottor * (che Dio se ne rammenti nel momento dei rendiconti… ), essendosi fatto largo di tra il folto pelame con manovre ampie d’avambraccio, sicuro incise e spalancò il marsupio umano. 
– Eccheschìfo! – poi sclamò – Ma guardate, guardate questo come se ne va in giro! Ma io dico! Non pretendo certo che si rispettino le proporzioni anatomiche al millesimo, ma costui esagera! Quando fanno così, io… io… manco li opererei, guarda un po’! mi fanno perdere tempo, mi fanno perdere! Eh! Non è che non ho niente da fare, io!
– Raggiòne ha, professòre! – gli fecero in coro i balordi intorno – la ggènte sono pazzi!
Quindi un solista:
– Lei perché è troppo bravo, professòre… io, per me, lo lascerei a panza all’aria, così si impara l’educazione, ’stu strun…
– No, no, Ingallinera, – l’interruppe il famoso dottor * – la scienza (di cui io sono umile ministro), ci comanda di soccorrere, qua, questo paziente! Che egli faccia schifo (anatomicamente ed esteticamente), per noi non deve fare la minima differenza! Noi siamo missionari! Siamo stati chiamati! Dico bene? Ingallinera! Forse che io non sono stato chiamato?
– Professòre, io qua ero… niente ho sentito, veramente…
– Che cosa?
– Che l’hanno chiamato, Professòre… – si scusò il diseredato.
– Quando mi hanno chiamato? Possibile che devo sapere le cose sempre all’ultimo momento!?! Ingallinera! Io ti esautoro!
– No Professòre, l’ha detto lei che l’hanno chiamato…
– Ossignòre benedetto! La chiamata, la chiamata, Ingallinè, la chiamata è … la missione, no? La mia, missione. Tu devi fare conto che io, anche se sto qua con voi, io sono, nel mio esercizio, un missionario! Io sono un sacerdote! 
– Il professòre parla vangelo! – ruttò la zoppa, che aveva approfittato del pistolotto per vedere se, nella pagina seguente del suo fumetto le lingue lubriche avessero già operato, decretando il trionfo definitivo dell’amore sull’avversità varie (« ’Mmalirìtti, fìgghi ’i sugamìnchia e ’bbastardùni tutti pàri! »). 
– Grazie Favaloro – la ricompensò il luminare, afferrando un tratto d’intestino a portata di mano e sollevandolo – ma non dobbiamo esagerare! Vero che sono, certe volte, anche meglio d un prete, – (ad ogni strattone alle sue personali frattaglie, intanto, tormentato nell’equilibrio coprostatico, benché silenziato dall’anestesia, lo sventurato gemeva pietosamente) – ma ogni tanto pure io perdo la pazienza! Guardate a questo! Guardate! E che si fa così? C’ha più vermi lui di un negozio di esca viva! Eh! Quand’è così mi schifo pure a vederli!
E in effetti mostrava, senza mitigarne l’apparenza, la più viva ripugnanza alla vista del suo orologio d’oro, tutto imbrattato dall’entragne violate e lasciate, per la verità, un po’ in disordine.
***
Il famoso dottor * (possa egli soffrire i tormenti più atroci chiamando a soccorso con i nomi più amorevoli gl’indifferenti parenti suoi negli attimi esiziali) non era certo l’unico primario affaccendato, quella mattina. 
Un altro prestigioso terapeuta, governato sicuramente dallo zelo più rimarchevole verso l’esplorazione scientifica, in una stanzetta ambulatoriale del reparto psichiatrico al piano superiore, indagava i segreti smegmatici della signorina Vincenzina *, affetta da – oggi si direbbe, con terminologia aggiornata – psicosi maniaco-depressiva – allora si diceva, più empiricamente: “scattiàta”. 
La poverina – della bellezza malaticcia e gracile degli indifesi perseguitati –, non riuscendo a comprender bene qual tipo di incursiva terapia le stesse praticando quella bestia sudata, fissava sgomenta il soffitto con occhi di vetro impassibili, dietro i quali pensava fortemente – quasi a dolersi le meningi affaticate – ai campi odorosi intorno a casa sua, dove ancor qualche giorno prima sgambettava, felice insino all’isteria. Pensava alla mamma che le accarezzava malinconicamente la testolina graziosa. 
Pensava a Morettina (la sua mucca preferita, quella con lo sguardo più sbigottito che si possa ritrovare in un bovino). 
Pensava ad un giovanotto gentile che, una volta, le aveva offerto un fiore: « com’era carino!», e si figurava nella mente che quel ragazzo la amasse tanto, e la ricoprisse di baci appassionati. 
Sì, si trovava proprio con lui. Nessun altro. E facevano – cosa meravigliosa – all’amore! 
Concepiva con la fantasia, dunque, che nel momento presente stava in dolcissima compagnia con quel bel ragazzo, che le diceva parole di miele.
Ma, fuor della sua comprensione, nella sordida realtà di quella stanza, non era il ragazzo a depredarla, il maturo e prestigioso terapeuta bensì.
Nel suo intimo, quel giorno, Vincenzina, faceva all’amore.
All’esterno, Vincenzina faceva all’amore, nello stesso modo con cui, certe volte, quando la testa gli girava forte, si mordeva le unghie.
***
– Ingallinera! – disse il famoso dottor *, fattosi d’un tratto pensieroso – Che cosa dobbiamo togliere a questo signore?
– Professòre, non me lo ricordo… – piagnucolò lo sgherro, che temeva gli accessi d’irascibilità del maestro – …forse che magari lo sa Porrovecchio! Ieri c’era lui di servizio… – sperò.
– Oh, camurrìa buttàna! Forza! Chiamatemi a Porrovecchio! Alè! Alè! Movimento! Forza gioventù, trottare! 
(Tal altro scherano, Porrovecchio Giuseppe, tuttavia – irrintracciabile – anche volendo, non lo sapeva, e poi non lo voleva, intensamente preferendo, in quel momento, perdere altri soldi con i suoi compari di scommesse sui combattimenti clandestini di cani).
– Professòre, non si trova! Forse che è a casa di sua zia Natalina ’a lavannèra : là non ce n’è telefono…
– Ma sempre devo fare tutto da solo! Favaloro, forza! Fammi il numero di casa, vediamo se mia moglie si ricorda qualche cosa! Forza! Làssili fùttiri ’di minchiàti di giurnalètta! 
La sciancata sorteggiò, con la mano buona, i numeri adatti sul disco selettore:
– Signora, bongiònno, scusasse tanto, ma oggi ’u prufessùri è ’ncazzatu: vò sapìri chi ’c’iama scippàri a ’stu strunzu ka c’è kà… 
– A me, a me, movimento! – le strappò la cornetta, quel sapiente – Giovannina, amore della casa, che per caso ti ricordi cosa dovevo asportare al paziente qua oggi? 
– E che mi conti a me? Che sai, che m’immischio io negli affari che non mi riguardano? Ne ho tante cose da fare, io… aspetta, aspetta che cambio mano se no lo smalto si rovina e poi me lo devo mettere un’altra volta. Senti che fài, invece: quando torni, non ti scordare di passare da tuo cognato: mi ha promesso un caciocavallo. Non te lo scordare, hai capito? Pàssici, ché poi quello ne vuole una scusa e non me lo manda mai! Mi raccomando. Ora mi ddevi scusare gioia: ti devo lasciare, ché c’ho assai che fare
Infatti, appena chiusa la stringata conversazione, riaprì subito le cosce, allargandole a favore del dottor *, che soffiava come un mantice, infastidito non poco per l’interruzione, giacché parecchio gli seccava rinunziare a parte del tempo a sua disposizione, essendo già denudato, nella stanza accanto, anche il dottor *, pronto a coglier quel che restava della virtù – giornaliera – della signora.
***
(Ora vieni, lettore, ché abbiamo da svolgere un pietoso ufficio. Questione d’un minuto: a qualche metro di distanza, solo un par di porte, si va a far visita ad un brav’uomo. Gli sarà di conforto…). 

Pipitone Paolino, panettiere rifinito, e pasticciere eccellente altrettanto – del resto non si vede come possano impedirlo preferenze sessuali… personalissime… –, un cristaccione d’uomo di chilogrammi centotrentasette (senza la tara), giaceva su una branda, torturato dai dolori che gl’eran procurati dal bacino fratturato. 
Attentamente curava di non farsi scoprire, dai parenti che visitavano gli altri malati nella sua stanza – si sa: in paese, andare a far visita a Paolino voleva dire, quasi sicuramente, che… ma insomma, nessuno ci andava… –, ma quando poteva, di nascosto piangeva. Piangeva di cuore. Per le fitte, certamente, ma anche, e soprattutto, per un altro motivo. 
(Ebbene, isoliamolo, questo motivo: è l’ultima occasione utile. Poi non si potrà più).

Paolino col bacino
fratturato, si vorrebbe
magro, fine, mingherlino,
piccolino piccolino
e il fardello lascerebbe
solo agli incubi cattivi.
Come un piccolo ragnetto 
che la brezza poi prelevi
e per l’aria lo sollevi; 
quasi un esile rametto:
trascinandolo nei cieli.
Liberato nell’azzurro
tra le piume e gli asfodeli
ed i fiori senza steli:
solo il peso d’un susurro.
Senza più un solo osso,
ma neanche un ossicino!
Te l’immagini che spasso,
che delizia, che gran lusso,
volteggiar come uccellino?
Paolino Pipitone 
non ha più alcun bisogno:
con i venti, a meridione
s’allontana in ascensione
e non dice « Mi vergogno… »
nella vita replicata
con un corpo senza peso
su per l’aria depurata,
l’atmosfera trasvolata
dell’empireo più esteso.
Pipitone Paolino
se ne viaggia via lontano:
è scappato da un buchino
ormai gioca a nascondino
Non è più un ergastolano
nella gabbia dei reietti
Giace morto nel suo letto,
non subisce più dispetti
degli stupidi e dei gretti:
ora, è solo un angioletto.
***
– Ha saputo qualche cosa, Professòre?
– Zero Carbonella! Figurati se mia moglie sa mai niente, quando le chiedo una cosa! Quella è buona a fare una cosa sola!
Temettero tutti, realmente conoscendo (a differenza del marito) gli svaghi della signora, che l’operazione stesse per andare a farsi benedire: nessuno osò pertanto proferir verbo, né tantomeno chiedergli a cosa alludesse. Ma ormai il famoso dottor * era già in viaggio, destinazione filippica:
– Mi fa diventare pazzo solo se ci penso!
(Apprensione generale)
– Lo sapete che fa (pare che me lo fa apposta!)?
Il mutismo e l’omertà regnavano sovrani.
– Nessuno se lo immagina?
La saggia storpia cercò di riparare:
– E ’bònu, bònu, prufessùri… nènti ci fa… Lo sa com’è sò mugghièri: ci brucia. Ci vùgghi ’u pignatièddu quannu sènte ciàuru ’i citròla! 
– Ma che dici, Favaloro! Certe volte non lo capisco neanche io il tuo vernacolo fiorito! Mia moglie lo spreme dal centro!
(Tutti, a cappella): Ma no, professòre; la gente conta minchiate; parlano per invidia (quant’è brutta l’invidia!); ma quale…; io manco li sentirei, quelli che dicono cose storte; ma figuriamoci; a lei sua moglie ci vuole bene; si stàsse tranquillo; ma tu guarda, quello che si escono dalla bocca; se ogni cane che passa uno ci tira ’na pètra…; sìnni futtìssi prufessùri; etc., etc.
– Invece è vero! – cassò – Lo spreme dal centro! Ogni volta devo raccogliere io tutto il dentifricio dalla fine del tubetto! Mentre lo sa, la disonesta, che mi fa imbestialire! Ma non sono cose da delinquenti?
(Tutti, risollevati – già scappellati da prima, tranne la zoppa): Ah, vabbè; niente, niente; Professòre… ô Professòre…; non si deve preoccupare, per queste cose; non è che lo fa per cattiveria; non si deve fare il sangue acido; etc., etc.
– Insomma! – li sovrastò il famoso dottor * – è una brutta cosa. E basta. Ora lavoriamo, signori. Movimento! Allora, che dobbiamo togliere a questo? A me già mi sta passando la voglia! basta, và! Svegliamolo! 
– Ma come Professòre… 
– Niente, niente, mi sono seccato. Svegliamolo. Magari lui lo sa che cosa gli dobbiamo levare.
Il capro squarciato fu richiamato in vita Ci volle il bello e il buono, dato che s’era affezionato alle soffici lusinghe del coma narcotico, ma alla fine si risvegliò.
– Bene, giovanotto – gli disse, un poco scocciato, il famoso dottor * – che vogliamo fare?
– E che vogliamo fare – rispose Patonsio, ancora frastornato – che ’ssàcciu io che dobbiamo fare? Ma lei cu è? Chi è ka vòle ’ri mìa? Matre santa! Tutt’a pànza mi squartò! E che ci pàru, piscispàda? 
– Giovanotto, giovanotto! Le sembra che siamo qua per giocare? Eh? Favaloro, che fa, giochiamo qua?
– Kà non si gioca e non si scherza! – rincalzò la malformata, agitando in faccia a Patonsio un dito basculante in segno di sprezzante diniego – Che t’hai mìsu ’na tèsta, maravìgghia? 
– Comunque, lasciamo stare gli scherzi ora. – riprese il famoso dottor * – Che cosa le dobbiamo togliere noi? Me lo vuole dire, per gentilezza? 
Patonsio era basito, sconcertato:
– Ma lei che è, pazzo? Ma che sùgnu, kà, ’ne Mau-Mau? Uno non si può addormìscere cinque minuti che subito ci volete scippare qualche cosa? Ma cose, cose dei pazzi! Io qua sono venuto a trovare a mio zio Rosario che c’ha la prostata. Forse che mi sono addormisciùto cinque minuti, e mi trovo tuttu squartatu com’a’n kràstu! – strepitò imbufalito, ma non per questo consapevole d’aver dormito, invece, una notte intera, dato che la sera prima, vinto dal sonno, s’era adagiato su una barella – Ora mi cucite subito, qua, ’i vurèdda sfàtti , se no vi scàsso tutti a legnate! Ma che siete, tutti pazzi qua dentro?
Patonsio, però, si sbagliava. Il mondo è pieno di pazzi.
Parola d’onore.

 

 

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